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Strage di Bologna 36 anni dopo, lo specchio di un’Italia senza verità

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Sono trascorsi trentasei anni dalla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna e ancora non c’è una verità storico politica, oltre quella processuale che condannò Mambro, Fioravanti e Facchini quali esecutori materiali dell’attentato, che possa aiutare a fare piena luce sui mandanti dell’efferato attentato, costato la vita a 85 persone. Bologna si prepara a ripercorrere nella ricorrenza il corteo da piazza Maggiore a quella delle Medaglie d’oro, davanti alla stazione centrale. Ci saranno come sempre con i parenti delle vittime, raccolti nell’associazione e insieme alle autorità, tanti cittadini a richiedere ancora come il primo anno verità fino in fondo.

La strategia della tensione che provocò, prima e dopo il 2 agosto, stragi e lutti nel nostro Paese ha sempre rappresentato con le verità comunque emerse tra le cortine fumogene dei depistaggi, un disegno di ampio raggio per condizionare il corso politico d’Italia, colpevole di avere una sinistra troppo forte, a causa di quel Partito comunista anomalo che raccoglieva eccessivi consensi e si temeva che potesse andare al governo.

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Furono anni di stragi di innocenti, omicidi di magistrati, docenti universitari e giornalisti. La strage di Bologna, fu la più grave di tutte per il numero dei morti e le esecrabili modalità: far esplodere una bomba ad alto potenziale, nella stazione affollata di una città, in un giorno dedicato alle partenze per le vacanze della gente più semplice, rimane l’evento più emblematico. Una strage per far male davvero, richiama all’oggi alle stragi di innocenti da parte dei terroristi fanatici dell’Islam che paiono azioni di sconsiderati “lupi solitari” e invece rispondono anch’esse a un disegno politico-militare globale di amplissimo ed altissimo livello: portare la tensione mondiale allo stadio più elevato, per minare gli attuali equilibri interni e internazionali dei paesi coinvolti nel conflitto, in particolare di quelli che svolgono un ruolo strategico sia in Occidente che in Medioriente.

Se torniamo alla strage di Bologna e rileggiamo il contesto in cui avvenne, molti elementi concorrono a determinare un preciso scenario: pochi mesi prima che venisse ucciso, il giudice Mario Amato che indagava sul terrorismo di matrice fascista, aveva avvisato più di una volta, invano, il Csm che a parer suo l’estrema destra, anche all’interno delle carceri e in raccordo con la criminalità mafiosa e comune, preparava eventi gravi ed eversivi per la democrazia.

Così come le indagini successive alle prime sentenze di condanna, anche di recente, hanno evidenziato il ruolo di depistaggio di infiltrati dei servizi segreti che avevano addirittura avvisato giorni prima chi doveva evitare di essere coinvolto di lasciare Bologna, il fondato sospetto che alcuni elementi della loggia massonica bolognese “Zamboni de Rolandis”, poi sciolta, possano aver svolto un ruolo nei mesi precedenti la strage, organizzando riunioni con esponenti della P2, appartenenti anche ai vertici militari, perfino con il coinvolgimento di esponenti dell’allora corrente “andreottiana” della Dc. Una questione che richiama il ruolo della cosiddetta “massoneria deviata” nella stessa città teatro degli eventi.

La strage di Bologna, avvenne pertanto in un contesto e con modalità dirette ed indirette che rispondevano ad un chiaro disegno politico, probabilmente dimostrabile se vivessimo in un Paese con uno Stato democratico degno del nome e non in un Paese condizionato da poteri forti e inintellegibili che hanno sempre avuto l’obiettivo, ancor oggi, opposto di mantenere una democrazia debole e ricattabile.

Il 2 agosto saremo per le strade di Bologna a chiedere ancora verità, ma più passa il tempo e più ci rendiamo conto che questa verità è impedita dallo stesso potere che dall’interno delle istituzioni, osteggia con tutte le sue forze una maturazione del Paese che lo renda più consapevole della propria storia e quindi più responsabile. Vogliono un “paese bambino” e un popolo disposto ad accettare qualsiasi menzogna e qualsiasi verità di comodo pur di non pensare, Di tale ispirazione, anche gli attuali tentativi di stravolgimento costituzionale, sono un’espressione.

Di questi argomenti si discute a Bologna giovedì 28 luglio alle ore 21, presso l’Archiginnasio nella presentazione curata dalla libreria Coop ambasciatori: “ALTO TRADIMENTO. La guerra segreta agli italiani da Piazza Fontana alla strage alla stazione di Bologna”. In occasione della commemorazione della strage del 2 agosto, a cura di Antonella Beccaria, Giorgio Gazzotti, Gigi Marcucci, Claudio Nunziata, Roberto Scardova (Castelvecchi). Interviene con gli autori il deputato democratico Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime, che ne ha curato la prefazione.

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Matacena: servizi segreti, massoneria e il monsignore con l’oro vaticano. Nuova inchiesta su latitanza dell’ex deputato Fi

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Un colonnello – massone – dei servizi segreti e un assistente capo di polizia in servizio a Palazzo Chigi avrebbero favorito la latitanza di Amedeo Matacena, l’ex deputato di Forza Italia condannato definitivamente a tre anni per concorso esterno alla ‘ndrangheta e tutt’oggi irreperibile per la giustizia italiana. Riparato – a quanto si sa – a Dubai. Ma nel nuovo filone d’inchiesta della Procura di Reggio Calabria, rivelato oggi da il quotidiano Il Tempo, compare anche un monsignore che – secondo la testimonianza di alcuni imprenditori – ha tentato di vendere in nero 400 chili di lingotti custoditi in un caveau del Vaticano e frutto “della fusione di oro donato dai fedeli alla Chiesa”. Non basta. Nelle carte comparirebbero riferimenti al clan Casamonica e a una imprenditrice di Corleone – citata per l’affare dell’oro – e vari commerci fra gas, petrolio e giubbotti antiproiettile. L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho e dal sostituto Giuseppe Lombardo. E trae origine da quella che ha portato a processo – ancora in corso – fra gli altri l’ex ministro berlusconiano Claudio Scajola, anche lui accusato di aver protetto la latitanza di Matacena (e che su Il tempo definisce il nuovo filone “uno sporco gioco politico”).

L’uomo di servizi finito sotto inchiesta per associazione mafiosa – in concorso con altri soggetti – è il colonnello Domenico Sperandeo, all’epoca dei fatti in forza all’Aise (l’agenzia per la sicurezza esterna) e, secondo quello che scrivono i pm, pensionato anzitempo dal sevizio proprio in seguito all’indagine. Il poliziotto iscritto per lo stesso reato è Franco Ciotoli, assistente capo della Polizia di Stato presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Ad aprile la Direzione investigativa antimafia ha perquisito le loro abitazioni , portando via computer, tablet e dischi rigidi. Sono accusati di far parte di “un’associazione per delinquere segreta collegata alla ‘ndrangheta da rapporto di interrelazione biunivoca al fine di estendere le potenzialità operative del sodalizio in campo nazionale e internazionale”, insieme ad altri personaggi già coinvolti nel caso Matacena. Oltre a Scajola, la moglie del politico latitante Chiara Rizzo, la sua segretaria Maria Grazia Fiordelisi, il suo factotum Martino Antonio Politi e Vincenzo Speziali, anche lui latitante e nipote omonimo del senatore Pdl.

Secondo l’accusa riportata nel capo di imputazione, il gruppo “ha posto in essere o comunque agevolato condotte delittuose dirette ad agevolare l’attività di interferenza di Speziali su funzioni sovrane (quali la potestà di concedere l’estradizione, in capo alle rappresentanze politiche della repubblica del Libano) finalizzate a proteggere la perdurante latitanza di Matacena”. Con l’obiettivo, secondo i pm, di “mantenere inalterata la piena operatività di Matacena e della galassia imprenditoriale a lui riferibile, costituita da molteplici società usate per schermare la vera natura delle relazioni politiche, istituzionali e imprenditoriali da lui garantite a livello regionale, nazionale e internazionale”.

Il colonnello Sperandeo, scrivono i magistrati nel decreto di perquisizione, “risulta inserito in una loggia massonica, verosimilmente il Grande Oriente d’Italia, sin dai tempi in cui era in servizio all’Aise”. Circostanza che, “viola i limiti imposti dalla legge in ordine all’iscrizione alle logge massoniche di un soggetto che riveste lo status di militare in servizio. Nelle intercettazioni, l’uomo dei servizi parla con avvocati, dipendenti Rai e professionisti romani di “riunioni” che si tengono ogni martedì “in un tempio diverso”. “Il mio assistito è sempre stato un fedele servitore dello Stato e si dichiara estraneo ai fatti, e siamo pronti a dimostrarlo”, afferma il legale di Sperandeo, l’avvocato Daniele Francesco Lelli, contattato da ilfattoquotidiano.it. Ma per entrare nel merito delle accuse bisognerà attendere le fasi successive del procedimento.

Sperandeo e Ciotoli sono anche indicati dalla Procura di Reggio come intermediari nel presunto tentativo di vendita dei lingotti vaticani, in contatto con i soci della Goldiam, azienda di diritto maltese nel settore dei preziosi. Sentito dagli inquirenti nel 2015, un imprenditore ha messo a verbale che un “monsignore mi disse che aveva la necessità di effettuare un’operazione riservata che prevedeva la vendita di un primo stock da 400 chili (…). Richiedeva il pagamento in contanti o attraverso il deposito presso una cassetta di sicurezza estera”. Un socio della Goldiam precisa poi agli inquirenti: “A dire del monsignore l’oro era custodito nel caveau del Vaticano. Appresi che proveniva dalla Svizzera ed era frutto della fusione di oro donato alla Chiesa”.

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‘Ndrangheta, Cafiero de Raho: “A Reggio controlla tutto, popolazione soggiogata”

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“Nel territorio di Reggio Calabria le istituzioni sono fortemente isolate, da un lato perché vi è una popolazione totalmente soggiogata dalla forza di intimidazione della ‘ndrangheta, dall’altra perché c’é confusione, non si sa con chi ci si rapporta e questo determina distanza tra popolazione e istituzione”. L’analisi è del procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho, che l’ha illustrata davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Dove il magistrato che da procuratore di Napoli ha smantellato il clan dei Casalesi, istruendo l’inchiesta che è poi sfociata nel processo Spartacus, è stato chiamato per riferire dei rapporti tra la più potente delle mafie e la massoneria.

Anni di inchieste, da ‘Sistema Reggio’ ad ‘Araba Fenice’ all’ultima, ‘Mammasantissima’, con “arresti centellinati, perché siamo il primo giudice degli atti che compiamo”, hanno portato alla luce una struttura polimorfa, che condiziona la vita pubblica e privata. Gli appalti e l’apertura di un bar, ha spiegato Cafiero de Raho. “Le indagini evidenziano il rapporto tra ‘ndrangheta e una rete segreta, e come questa rete possa spingere sulle scelte che la città deve fare”, ha spiegato il magistrato. Una loggia che non è la massoneria, ma “qualcosa di diverso e superiore”, che “lega professionisti, uomini della ‘ndrangheta di più alto livello e uomini delle istituzioni“, e la procura sta cercando di mettere a fuoco il legame, anche in passato con “appartenenti alle istituzioni, alle forze dell’ordine, ai servizi segreti e magistrati”.

La ‘ndragheta “controlla tutto – ha continuato – in modo così profondo che anche la manutenzione di un immobile privato impone il ricorso a soggetti che secondo la ‘ndrangheta possono lavorare in quel quartiere. Dall’indagine Araba Fenice emergeva che un lavoro idraulico o di pittura può essere fatto solo da un soggetto che può lavorare, oppure il lavoro non si fa”. L’operazione che ha portato all’esecuzione di una ventina di ordinanze di custodie cautelari era partita dall’esplosione in un bar in via di ristrutturazione. I magistrati hanno accertato come l’apertura di quel bar avesse determinato una guerra tra esponenti di ‘ndrangheta, un corto circuito nella spartizione del territorio.

Il procuratore di Reggio ha lasciato però uno spiraglio alla speranza. Eppure, “la gente comincia a capire che non si può continuare nello stesso modo, cominciano ad esserci denunce che sembravano impossibili. Lo scorso anno abbiamo avuto 13 collaboratori di giustizia, che è un numero straordinario”.

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‘Ndrangheta, verso maxiprocesso al “direttorio”. Chiuse indagini su 72 persone, c’è anche il senatore Caridi

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Forse è stata la prima volta che, a Reggio Calabria, chi sapeva di essere indagato in una delle recenti inchieste antimafia sperava di ricevere la mattina del 30 dicembre l’avviso di conclusione indagini da parte della Procura della Repubblica. L’ufficiale giudiziario ha bussato alla porta di 72 persone e tra queste c’è il senatore di Gal Antonio Caridi, in carcere da agosto quando il Parlamento ha dato il via libera all’ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa emessa nei suoi confronti nell’ambito dell’inchiesta Mamma Santissima, condotta dai carabinieri del Ros. Per i magistrati della Dda, infatti, il politico calabrese “fruiva dell’appoggio della cosca De Stefano”, operava “in modo stabile, continuativo e consapevole a favore del sistema criminale” che agevolava “mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico, delle cariche di volta in volta ricoperte all’interno del Consiglio e della Giunta comunale di Reggio, del Consiglio e della Giunta regionale della Calabria e del Senato della Repubblica”.

schermata-2012-03-18-a-18-28-18Il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Gaetano Paci e i sostituti Giuseppe Lombardo, Roberto Di Palma, Stefano Musolino, Giulia Pantano e Walter Ignazitto hanno riunito in un unico processo le più importanti inchieste antimafia (‘Mamma Santissima’, ‘Reghion’, ‘Fata Morgana’, ‘Alchimia’ e ‘Sistema Reggio’) eseguite nel 2016 dai carabinieri, dalla polizia e dalla guardia di finanza. Il procedimento che ne verrà fuori sarà il primo maxi-processo alla cupola della ‘ndrangheta dai tempi dell’operazione Olimpia. O meglio il primo maxi-processo che vedrà alla sbarra il “direttorio” della ‘ndrangheta, una struttura con una strategia programmatica che puntava ad alterare “l’equilibrio degli organi costituzionali”. Al centro dell’inchiesta le due teste pensanti della ‘ndrangheta reggina: gli avvocati Paolo Romeo (ex parlamentare del Psdi) e Giorgio De Stefano, “soggetti ‘cerniera’ che interagiscono tra l’ambito ‘visibile’ e quello ‘occulto’ dell’organizzazione criminale”.

Assieme a loro e al senatore Caridi, l’avviso di conclusione indagini è stato notificato a molti politici locali, imprenditori, mafiosi, ma anche a un magistrato in pensione, una giornalista e un prete. Tra gli indagati, infatti, c’è il presidente della Provincia Giuseppe Raffa (Forza Italia), l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra (ex An), l’ex sindaco di Villa San Giovanni Antonio Messina, due dipendenti del ministero della Giustizia, il magistrato in pensione Giuseppe Tuccio e il prete di San Luca don Pino Strangio. Il capo di imputazione contestato a quest’ultimo dimostra la capacità di quella che il pm Giuseppe Lombardo, ha definito “componente ‘riservata’ o segreta’ della ‘ndrangheta” formata da Paolo Romeo, Giorgio De Stefano in qualità di promotori, Alberto Sarra, Francesco Chirico e il senatore Caridi come organizzatori e partecipi.

Imparentato con i Nirta-Strangio di San Luca, Don Pino è uno degli artefici della pace tra le cosche protagoniste della faida che portò nel 2007 alla ‘strage di Duisburg. Fu lui, dopo la mattanza in Germania in cui morirono sei soggetti dei Pelle-Vottari, a convincere le famiglie in guerra a deporre le armi. Oggi è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa perché “in qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario di Polsi, – scrivono i pm – mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti della ‘ndrangheta in funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazioni gradite ai secondi”. In sostanza, tra i “buoni” e i “cattivi” secondo la Procura ci sarebbe don Pino, a pieno titolo inserito in quel “mondo di mezzo” dove la ‘ndrangheta mette radici per controllare sempre di più il territorio, l’economia e la politica.

Un mondo di mezzo abitato da “invisibili” come Paolo Romeo al quale la Dda contesta anche la violazione della legge Anselmi. Un’accusa che Romeo condivide con una quindicina di indagati tra cui don Pino Strangio, il magistrato in pensione Giuseppe Tuccio, l’avvocato Antonio Marra, la giornalista Teresa Munari, l’ex assessore comunale Amedeo Canale, Saverio Genoese Zerbi e il funzionario della Corte d’Appello Aldo Inuso. Tutti sono accusati di far parte di un’associazione segreta, capace di infiltrarsi negli enti locali dettandone gli indirizzi politici. Un’organizzazione che avrebbe agevolato la ‘ndrangheta consentendo il 16 gennaio 2014 al suo promotore, l’avvocato Paolo Romeo, di essere ricevuto addirittura al Senato dall’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali guidato all’epoca da Anna Finocchiaro, oggi ministro del governo Gentiloni.

L’inchiesta ‘Mamma Santissima’ e le altre indagini della Dda hanno aperto uno squarcio sul rapporto politica-‘ndrangheta. Ed è proprio nelle pieghe di questo rapporto che la massoneria gioca un ruolo decisivo. Grembiulini e clan legati alla destra eversiva e con progetti separatisti che, in determinati momenti storici, hanno cercato di minare l’ordine costituzionale per poi trovare spazio nelle istituzioni e condizionarle. Un convitato di pietra che vede negli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano “il motore immobile del sistema criminale” oltre che gli “eredi” dei fratelli Giorgio e don Paolino De Stefano, uccisi nel 1977 e nel 1985. L’ex parlamentare del Psdi e il “consigliere” storico della famiglia di Archi non sono altro che i “riservati” della ‘ndrangheta tanto quanto il senatore Antonio Caridi, descritto dai pm come una di quelle figure politiche a cui i vertici degli “invisibili” hanno affidato ruoli e cariche in grado di agevolare il buon esito del programma criminoso delle cosche.

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Nell’inchiesta ‘Mamma Santissima’ è indagato anche l’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, condannato pochi giorni fa a 5 anni di carcere nel processo d’appello sul caso ‘Fallara‘. Sostenuto dalla cosca De Stefano e dall’ex killer Nino Fiume (oggi pentito), la sua elezione a sindaco di Reggio nel 2002 è stata voluta da Paolo Romeo così come la decisione di catapultarlo a governatore della Calabria nel 2010. Nonostante la perquisizione subita a luglio, il nome di Scopelliti non compare nell’avviso notificato ieri dalla Direzione distrettuale antimafia che su di lui quindi ha deciso di continuare le indagini.

L’inchiesta prosegue anche sul fronte del Partito Democratico. La cupola della ‘ndrangheta che governava Reggio e che, “col determinante apporto di Paolo Romeo”, dal 2003 al 2013 aveva “dirottato in blocco l’elettorato mafioso su Giuseppe Scopelliti”, quando capì che il centrodestra era in difficoltà decise di sostenere il centrosinistra. Stando alle carte inserite nel fascicolo del processo ‘Mamma Santissima’, infatti, la componente segreta della ‘ndrangheta è riuscita a infiltrarsi anche nelle primarie per scelta del candidato a sindaco di Reggio Calabria, nelle comunali e nelle regionali vinte da Mario Oliverio.

Il Ros è riuscito a documentare come Paolo Romeo si sia avvicinato “alle posizioni del Pd, in seguito agli accordi con il segretario provinciale di quel partito Sebi Romeo”. Accordi che, se riscontrati, certificheranno come la ‘ndrangheta sia riuscita a eleggere due consiglieri regionali rimanendo l’unica costante nella logica dell’alternanza politica che ha caratterizzato i governi regionali di centrodestra e centrosinistra. “Sia il De Stefano che il Romeo – appunta, infatti, il Ros in un’informativa oggi sulla scrivania del procuratore De Raho e del sostituto della Dda Lombardo – hanno avuto un ruolo attivo nella trascorsa campagna elettorale. Nello specifico, Romeo Paolo ha indirizzato il sostegno elettorale in favore di Battaglia Domenico Donato (detto ‘Mimmetto’ ed eletto con oltre 10mila voti, ndr), mentre De Stefano Giorgio ha attivamente partecipato al sostegno elettorale del Romeo Sebi (12.288 preferenze, ndr)”.

‘Mamma Santissima’ è il primo passo della Procura per fare luce sull’olimpo della ‘ndrangheta reggina, frequentato da mafiosi, politici, massoni, pezzi collusi dello Stato, imprenditori, professionisti e giornalisti. Nei faldoni dell’inchiesta c’è di tutto: dai confidenti mafiosi che vendono i latitanti per il denaro proveniente dai fondi neri dei servizi segreti e dei reparti speciali, ai favori che la cupola chiedeva agli uomini in divisa, passando per le associazioni di categoria al servizio della ‘ndrangheta e per gli investimenti delle cosche nell’Europa dell’Est. Ironia della sorte: la chiusura dell’inchiesta fa tirare un sospiro di sollievo ai 72 indagati che l’hanno ricevuta. Per tutti gli altri, il 2017 deve ancora iniziare.

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Spionaggio: Occhionero, Bisignani e gli indirizzi mail dell’inchiesta P4. Il gip: “Non è iniziativa isolata. Interessi oscuri”

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C’è un labirinto di nomi e rimandi a recenti vicende giudiziarie nell’inchiesta che ha portato due fratelli romani in carcere con l’accusa di aver depredato, con sofisticati attacchi informatici, dati e informazioni a uomini potenti del mondo della politica, degli affari, delle istituzione e anche della massoneria. Nelle 47 pagine in cui il gip di Roma Maria Paola Tomaselli tratteggia la storia dei fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero – preconizzando un’accusa di spionaggio – in una nota a piè di pagina 8 si manifestano un nome e un’altra indagine che solo cinque anni fa aveva svelato l’esistenza di un sistema di intelligence parallelo che i pm di Napoli avevano battezzato P4. In quel processo Luigi Bisignani, classe 1953, patteggiò un anno e sette mesi. Il faccendiere, il cui nome compariva negli elenchi della P2 e che fu perquisito durante l’indagine Why Not, viene citato dal giudice perché i dati carpiti dai pc infettati dal virus spedito dai due indagati venivano inviati a quattro caselle di posta @gmail (purge626@gmail.com, tip848@gmail.com, dude626@gmail.com e octo424@gmail.com) in cui si erano già imbattuti gli inquirenti di Napoli senza riuscire a risalire alla sorgente. Uno di questi “sarebbe collegato a operazioni di controllo da parte di Luigi Bisignani nei confronti dell’onorevole Papa (il cui indirizzo risulta spiato anche in questa inchiesta, ndr) e delle Fiamme Gialle nell ambito dell inchiesta relativa alla P4″.

Ora i quattro indirizzi riaffiorano. Seguendo le tracce informatiche fino ai server locati in Minnesota (Usa), gli uomini della Polizia postale sono riusciti a trovare un collegamento tra le mail e i due fratelli. “Nello specifico tali indirizzi sarebbero stati riconducibili ad un attività di esfiltrazione di dati e dossieraggio illecito – spiega il gip – effettuata con modalità del tutto analoghe a quelle utilizzate dal malware oggetto del presente procedimento. Da quanto narrato sinora si evince chiaramente come pur essendo stato riscontrato in pregresse vicende giudiziarie l’utilizzo del medesimo malware in precedenza non era mai stato possibile risalire al suo reale utilizzatore. Tuttavia erano già evidenti indizi gravi, precisi e concordanti che a utilizzare negli anni l’EyePiramid e i suoi aggiornamenti fosse stata sempre la medesima persona“. Come fanno gli inquirenti a dirlo? Basandosi sulla “circostanza che il codice fosse stato sempre lo stesso, con la logica conseguenza di poter ritenere che il malware fosse gestito nel tempo dalla stessa persona od organizzazione. In altre parole – ragiona il gip – si deve ritenere che l’acquirente della licenza MailBee utilizzata all’interno del codice malevolo corrispondeva alla persona che in questi anni gestiva il malware e ne aggiornava nel tempo le diverse versioni”. Una suggestione forse perché in ogni caso, precisa il giudice, “allo stato un collegamento con altri procedimenti penali non è dimostrato“.

La prima ipotesi è che i due indagati, che con una sorta di grande rete informativa pescavano a strascico dati e informazioni da soggetti eterogenei (tra gli spiati troviamo anche la sede della Cgil di Torino e la Facoltà di Lettere dell’Univerità di Napoli), utilizzassero il bottino dei loro furti per rivenderlo. “L’analisi dei singoli episodi ricostruiti nel presente procedimento mostra chiaramente che non si tratta di condotte isolate ma di un modus operandi dei due indagati che per anni – argomenta il giudice – hanno gestito i loro affari e interessi economici e personali secondo le descritte modalità illecite”. Eppure gli indizi raccolti in altre inchieste lasciano più che intuire che il caso svelato dalla Polizia “non sia un’isolata iniziativa dei due fratelli ma che, al contrario, si collochi in un più ampio contesto dove più soggetti operano nel settore della politica e della finanza secondo le stesse modalità…” per “interessi illeciti oscuri” . Come avvenuto appunto nell’inchiesta P4 e anche Why Not. Chi o cosa abbia unito il sistema di intelligence parallelo scoperto a Napoli o il coacervo di associazioni segrete, pubblici funzionari infedeli, pezzi di Stato deviati all’epoca svelato a Potenza sarà con ogni probabilità il prossimo passo dell’indagine.

Eppure il filo da seguire sembra essere sempre lo stesso, quello che porta un gruppo di potere trasversale all’ombra ancora una volta di un massone. Tra le tante suggestioni di quest’inchiesta una certezza c’è: Giulio Occhionero, l’ingegnere nucleare che sin dal 4 ottobre aveva cominciato a cancellare dati e account dal suo pc, è membro della loggia Paolo Ungari – Nicola Ricciotti Pensiero e Azione di Roma “della quale – scrive il gip – in passato ha ricoperto il ruolo di maestro venerabile, parte delle logge di Grande Oriente d’Italia”. Quando nel 1981 il nome di Bisignani viene trovato negli elenchi della P2 in casa di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi per gli inquirenti l’allora 28enne giornalista sarebbe stato un reclutatore, un colonnello. Nonostante fosse il più giovane dell’intero elenco. Gherardo Colombo, il pm che scoprì quella lista, lo collocò nella categoria degli inquinatori, uomini sconosciuti ma potentissimi che hanno trascorso anni a influenzare indisturbati la vita democratica della Prima Repubblica.

Interpellato dal FattoQuotidiano.it Bisignani sembra stupito: “Non ho la più pallida idea di chi siano questi giorni. Non li ho mai sentiti prima. Quella mail non è mai comparsa nell’inchiesta. Forse c’era una mail che riguardava un avvocato. Ma io sono totalmente ignorante in informatica. Non ho neanche il pc, uso un iPad“.

m.pasciuti@ilfattoquotidiano.it

Twitter: @trinchella

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Figli di Trojan, non solo gli Occhionero: sul web un intero esercito di mancati detective / 4

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Quello “in grembiule” è un mondo che conosco davvero poco (mia nonna Bigina ne aveva uno, ma lo adoperava per cucinare) ma so che gli intrecci del nostro pianeta si annodano molto spesso con personaggi appartenenti a logge o aggregazioni misteriose. Probabilmente chi frequenta certi ambienti si alimenta (come i vampiri con il sangue) di dati e notizie che garantiscano la supremazia dell’informazione.

Sapere, sapere prima, sapere qualcosa in più, sapere qualcosa d’altro: questa è la forza di chi vuole rompere gli equilibri o crearne di nuovi, approfittando di un patrimonio conoscitivo che assicuri una posizione di vantaggio.

Considerato, però, che certe associazioni possono contare tra i “fratelli” tanti personaggi di spicco nelle istituzioni e nelle Forze Armate e di Polizia, sembra bizzarro che non si avvalgano proprio dei loro affiliati che – tra l’altro – sono debitori della loro carriera alla cerchia cui hanno aderito e che in qualche modo dovranno pur sdebitarsi con contributi di adeguato calibro.
E allora perché rivolgersi ai pur “volenterosi” signori Occhionero?

L’ombra della massoneria – così dicono e scrivono i “ben informati” – aleggia sulla scena.

L’ingegner Occhionero a quanto pare è affiliato alla Loggia 773 “Paolo Ungari – Nicola Ricciotti Pensiero e Azione”, da non confondersi (ho cominciato a documentarmi!) con la quasi omonima Loggia numero 1498 “Pensiero e Azione” il cui maestro venerabile comunicava via Facebook e i cui elenchi e documenti sono stati trovati il 5 marzo scorso in un cassonetto dei rifiuti davanti agli uffici del dipartimento regionale all’Energia di viale Campania a Palermo.

Il Grande Oriente d’Italia – casa madre della massoneria italiana e, come si legge sul relativo sito, “iniziatico i cui membri operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia” ha formalmente “sospeso” l’Occhionero riconoscendo l’appartenenza del soggetto al sodalizio.

Probabilmente accumulare dossier riservati era propedeutico all’acquisizione di ruoli sempre di maggior caratura nell’ambito dell’organizzazione cui l’ingegnere aveva aderito: l’informazione come freccia nella propria faretra, come merce di scambio, come strumento di potere.

Molto più facilmente la collezione dei dati poteva avere una destinazione commerciale. Mi spiego meglio.

Chi intraprende queste avventure (anche e soprattutto chi lo fa senza farsi accalappiare) opera a scopo di lucro: agisce su specifica istanza di qualche cliente, confida in una futura committenza da soddisfare con immediatezza, non esclude nemmeno dinamiche estorsive in danno di chi ha qualcosa da nascondere. Questa vasta gamma di possibile impiego di dati tesaurizzati ci porta per mano dinanzi al baratro in cui è sprofondata la nostra privacy.

Non ci troviamo dinanzi a due presunti “fenomeni” (Giulio e Francesca Maria), ma al solo effettivo e preoccupante fenomeno della “data collection” che conta migliaia di persone tra i suoi appassionati. La speranza di “rivendere” quel che si è scovato in maniera più o meno lecita trasforma le ricerche in attività compulsive. E se qualcosa non lo si trova in Rete (la cosiddetta “Open Source Intelligence” è disciplina di grande efficacia), l’aspirante “dominus” della conoscenza globale non esita a contattare chi ha a disposizione un terminale collegato a una banca dati giudiziaria o investigativa. La catena di favori e cortesie (prezzolate e non) e di piccole manovre sottobanco qualifica il livello della partita in corso, in cui farebbero capolino anche operatori di polizia pronti a sgraffignare qualche informazione nei database dell’ufficio (incuranti del fatto che ogni loro azione è rigorosamente tracciata).

I fratelli Occhionero sono la prima pattuglia che viene catturata, ma in campo c’è un intero esercito di mancati detective che somigliano ai tanti che vanno a giocare alla guerra nei boschi con il “softair” magari dopo essere stati “obiettori di coscienza” in età di leva. Internet è la giungla in cui vietcong digitali vanno autonomamente a caccia di nemici, sentendosi bravi e importanti per esser riusciti ad utilizzare trappole e ordigni virtuali e aver accumulato prede.

I mercenari della guerra alla riservatezza personale prima o poi riusciranno a vendere il loro scalpo a chi ne farà richiesta. Basta aspettare.

Le “radiografie” dei singoli individui pescati anche a strascico non ingialliscono mai.

 

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Massoneria, Bisi (Goi): “Non darò elenco all’Antimafia. Non ci sono parlamentari iscritti”

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“Sulla consegna degli elenchi ho scritto una lettera alla presidente Bindi motivando il perché la consegna degli elenchi non può avvenire. Si ritiene che consegnando gli elenchi dei 23mila fratelli del Grande Oriente si compierebbe un reato, il Parlamento ha approvato una legge sulla privacy che tutela la riservatezza dei dati sensibili”. Il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi, risponde così a una domanda durante l’audizione come testimone in Commissione Antimafia: “Parlamentari iscritti al Goi non mi risulta che ce ne siano”. Bisi è stato convocato dopo l’arresto dei fratelli Occhionero, accusati di aver carpito dati a oltre 18mila persone. Tra le vittime del cyberspionaggio, secondo le indagini della Procura di Roma, ci sarebbe stato anche Bisi che ha sospeso Giulio Occhionero iscritto alla loggia massonica.

Per Bisi “poteva essere una preoccupazione legittima” quella di Giulio Occhionero di vedere diffusi gli elenchi con gli iscritti al Goi, “perché in Italia c’è ancora un grave pregiudizio contro la massoneria”. Bisi ha affermato che il Goi non si era accorto dell’attività di Occhionero, “altrimenti la sospensione sarebbe avvenuta immediatamente, anzi avremmo aperto una procedura disciplinare per il fratello che ha commesso reati o altro. Non ci eravamo accorti delle attività di hackeraggio o spionaggio altrimenti lo avremmo ammonito prima e poi espulso”. “Non capisco perché spiasse i circa 300 fratelli di cui parlano i giornali. Noi siamo vittime, il motivo va chiesto a lui”.

“Nella costituzione e nell’ordinamento del Goi ci sono dei moduli da compilare – ha aggiunto Bisi – con documenti che bisogna presentare, e spero che i partiti e i movimenti politici di questo Paese possano fare altrettanto. Abbiamo dei controlli interni che ci fanno stare tranquilli, anche se non facciamo dei controlli come la polizia”. Rispondendo a una domanda della presidente Bindi il testimone ha poi risposto che dal 1982 “non esistono logge segrete di alcun tipo come non esistono fratelli segreti. La loggia Scontrino non era parte del Goi, non so neppure di quale comunione massonica facesse parte. Fratelli coperti non ce ne sono, a me non risulta. Dal 1982 non ci sono più i “fratelli all’orecchio”: sono tutti registrati all’anagrafe del Goi”, ha poi spiegato, aggiungendo che “tutti quelli che sapevano qualcosa non ci sono più: questo sistema sbagliato è finito nel 1982. Ormai da molti anni la segretezza non c’è più, sono note le sedi, i vertici. Se la segretezza è servita non lo so. Di segreto non c’è più niente nel Goi, non so se è così anche nelle altre organizzazioni massoniche, che, di altro tipo, ci sono”.

Bisi poco prima aveva spiegato le procedure di controllo interno. “Da quanto io sono Gran maestro del Grande oriente d’Italia, da due anni e mezzo, sono state abbattute le colonne di 3 o 4 logge: 3 in Calabria in provincia di Reggio Calabria e un’altra credo nel Lazio. Non c’era il numero sufficiente, non avevano condotta regolare rispetto a doveri e regolamenti, per problemi organizzativi o altro. Finché non c’è un certificato penale non possiamo agire come fossimo polizia giudiziaria – ha aggiunto, rispondendo alle domande della presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi fatte anche a nome degli altri parlamentari dell’Antimafia – Non chiediamo automaticamente l’aggiornamento dei certificati ma abbiamo controlli interni che ci fanno stare moderatamente tranquilli, abbiamo nelle logge gli ispettori che sono tenuti a vigilare sul comportamento dei fratelli: le attività di controllo interno sono numerose e quando intuiamo comportamenti contrari agli antichi doveri provvediamo alle sospensioni o alla demolizione della loggia. Ogni loggia ha i fascicoli personali e una storia; la documentazione, almeno una parte, viene tenuta nella struttura centrale”. Le logge in Italia sono 850 e circa 23 mila i fratelli iscritti. Bisi ha aggiunto che la tassa di iscrizione al Goi varia: 180 euro a persona vanno per la struttura centrale, poi c’è il funzionamento delle 850 logge; in media il costo annuo di ogni fratello ammonta a 400-500 euro l’anno. Il patrimonio del Goi è fatto dalle case massoniche che sono una cinquantina. Sarebbe stato un patrimonio più ampio – ha aggiunto – se la Repubblica ci avesse riconsegnato Palazzo Giustiniani che ci è stato confiscato dal fascismo. I dipendenti sono solo 14″.

 

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Mafia e massoneria, proposta per rafforzare la legge Anselmi: “No a dipendenti pubblici nelle logge”

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Mafie e massonerie rappresentano un binomio che attraversa la storia d’Italia da più di duecento anni, tanto da rappresentare talvolta un cliché. Eppure c’è un luogo nel nostro Paese in cui il tema è tornato recentemente di grande attualità, al punto da costituire una sorta di nuova frontiera delle indagini sulla ‘ndrangheta: la Procura di Reggio Calabria.  È per tenere conto del lavoro di frontiera svolto dai magistrati della Dda reggina, e sottoporre all’attenzione del Parlamento il ruolo che “fratellanze” di vario genere giocano nel rapporto tra mafie e istituzioni, che la Commissione Antimafia ha recentemente avviato un’inchiesta interna la mondo della massoneria. Mentre il deputato Pd Davide Mattiello, che ne fa parte, ha depositato una proposta di modifica della legge Anselmi, che dal 1982 sanziona penalmente l’esistenza di associazioni segrete.

“È ancora tollerabile che chi ricopre funzioni pubbliche possa fare parte di organizzazioni, seppure legali, che prevedono altre ‘obbedienze’?” si è chiesto ieri Mattiello, durante la presentazione della proposta di legge alla Camera, cui hanno partecipato il vicepresidente della Commissione antimafia Claudio Fava, il sostituto reggino Giuseppe Lombardo, l’avvocato Fabio Repici, la giornalista Alessia Candito e lo studioso Isaia Sales.

La proposta di legge prevede l’aumento delle pene per chi partecipa, organizza o dirige un’associazione segreta, aprendo così la strada all’utilizzo delle intercettazioni nelle eventuali indagini, e l’interdizione dai pubblici uffici per 10 anni. Ma, soprattutto, vieta l’adesione a logge massoniche o “associazioni che comportino un vincolo gerarchico e solidaristico particolarmente forte” per magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, per i giudici di pace, componenti delle commissioni tributarie, giudici popolari, dirigenti della pubblica amministrazione e delle Forze armate, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare, delle forze di polizia, della carriera diplomatica e prefettizia, del livello dirigenziale del corpo dei Vigili del Fuoco, del mondo penitenziario, professori e ricercatori universitari.

Per quanto sia remota o nulla la speranza di tramutarla in legge nel corso dell’attuale legislatura, la proposta di Mattiello ha il merito di portare all’attenzione pubblica lo sforzo dei magistrati calabresi di colpire i rapporti tra mafia e comitati politico-affaristici segreti attraverso un rinnovato ricorso alla legge Anselmi. La violazione della legge è stata contestata, ad esempio, ad una quindicina di soggetti nell’ambito dell’inchiesta calabrese Mamma Santissima. Tra questi l’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare del Psdi, il sacerdote don Pino Strangio e diversi funzionari pubblici, accusati di aver dato vita ad un’associazione segreta che avrebbe favorito la ‘ndrangheta.

“Su questi temi si nota, più che su altri, una distanza enorme tra i risultati dell’investigazione e il risultato che si ottiene in sede processuale” ha ammesso il sostituto regino Giuseppe Lombardo. “L’articolo 416 bis non sanziona l’attività di interferenza, ovvero le attività di lobbying” e questo genera più di un problema di fronte ai giudici. Ma il problema è ovviabile proprio attraverso il ricorso alla legge Anselmi.

“Per elaborare questo approccio investigativo a Reggio Calabria ci abbiamo messo molti anni” ha continuato Lombardo. Le risposte sui rapporti tra la ‘ndrangheta e le “strutture a lei parificabili” sono state trovate allargando le indagini su altri territori. Lì, lontano dalla Calabria, la Dda ritiene di aver trovato “conferme della vicinanza tra determinati fenomeni mafiosi”. Avverte però Lombardo: “Quando si parla di contesto massonico delle mafie non bisogna banalmente pensare che ci si riferisca ad un’obbedienza ben precisa”. Nel linguaggio degli ‘ndranghetisti “contesto massonico delle mafie significa soltanto un ulteriore tentativo di secretare quello che è già segreto”. I collaboratori di giustizia sul punto sono categorici: “Non è qualcosa di diverso. È mafia. Ma se voi la spacchettate e l’affrontate in maniera parcellizzata sui diversi territori, parlate di altro.. una realtà che non esiste”.

La Commissione parlamentare antimafia ha iniziato la scorsa estate le audizioni con i vertici delle principali obbedienze massoniche. “Il senso di questa inchiesta non è di giudicare la massoneria” ha spiegato la presidente Bindi durante l’audizione dello scorso 25 gennaio “ma punire l’uso strumentale dell’appartenenza all’associazione che offre canale di penetrazione ai poteri criminali”. La Commissione ha chiesto ai Gran Maestri l’elenco dei loro iscritti, con particolare attenzione alle liste di Sicilia e Calabria che risultano avere la concentrazione più alta di logge massoniche, sia regolari che irregolari. La richiesta è rimasta però inascoltata fino ad oggi, nonostante l’ultimo termine “perentorio” per la consegna degli elenchi fosse previsto per lo scorso 8 febbraio.

Ma perché dedicare una particolare attenzione al rapporto tra mafie e massonerie? Che cosa hanno di diverso le obbedienze massoniche da altre forme di associazionismo? Storicamente “la massoneria ha fornito il modello organizzativo alle mafie” ha spiegato durante la presentazione alla Camera Isaia Sales. “Nella prima parte dell’Ottocento, quando nelle carceri si incontrano i delinquenti disorganizzati e gli oppositori del sistema, aristocratici e borghesi, organizzati”. A partire dagli anni Sessanta, in Calabria, il rapporto ha assunto una veste ancora più stringente: “Nasce una cosa inusuale per la storia della mafia, una terza organizzazione tra mafia e massoneria che prende il nome di Santa”, ha continuato Sales. “La Santa serve a formare un crocevia. La massoneria consente alla ‘ndrangheta di avere tre tipo di relazioni, con il mondo politico, con quello imprenditoriale, ma soprattutto con la magistratura e gli avvocati”, utili a salvaguardare l’onore mafioso “il cui perno è costituito dall’impunità”.

Anche il deputato Claudio Fava ha annunciato che depositerà in Commissione antimafia una proposta di legge simile a quella di Mattiello. “Questa legislatura mai approverà testi come il mio o di Mattiello per ragioni di tempo” ha spiegato in conclusione della presentazione “ma il Paese ha diritto a questo dibattito”.

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Massoneria, Antimafia: “Sequestrare gli elenchi delle logge di Calabria e Sicilia”

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Alla fine si è arrivati allo scontro aperto. Dopo un braccio di ferro durato mesi, la Commissione parlamentare Antimafia ha deliberato oggi, all’unanimità, il sequestro degli elenchi degli iscritti alle logge di Calabria e Sicilia delle quattro principali associazioni massoniche italiane: il Grande Oriente d’Italia, la Gran Loggia Regolare d’Italia, la Serenissima Gran Loggia d’Italia e la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori.

La guardia di Finanza di Roma sta procedendo alle perquisizioni nelle sedi nazionali delle quattro Obbedienze. La decisione è stata presa nell’ambito dell’inchiesta sui rapporti tra mafie e massoneria avviata a partire dalla scorsa estate dalla Commissione, dopo la mancata consegna degli elenchi, più volte richiesti ai Gran Maestri auditi nel corso dei mesi passati.

“Abbiamo chiesto più volte le liste, per più settimane, indicando come termine ultimo di consegna lo scorso 8 febbraio” spiega Claudio Fava, vicepresidente della Commissione antimafia. “Ci siamo dati un altro mese di tempo e alla fine oggi all’unanimità la commissione ha deliberato di accogliere la proposta dell’ufficio di presidenza e di procedere al sequestro”.

Pur con posizioni differenti, le Obbedienze si sono fino ad oggi opposti alle richieste della Commissione appellandosi alla legge sulla privacy. Si è opposto alla richiesta, sin da subito, il Grande Oriente d’Italia che, con i suoi più di 23mila iscritti per 850 logge, rappresenta la comunione massonica numericamente più rilevante del nostro paese.

“La Costituzione prevede la libertà di associazione” è stata l’immediata reazione del gran maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi alla richiesta. L’istanza è giudicata “una forzatura molto ardita, che va contro il diritto di associarsi di tutti i cittadini”. “Ho scritto una lettera alla presidente Rosy Bindi motivando il perché questo non può avvenire – ha fatto sapere Bisi – riteniamo infatti che si compierebbe un reato in quanto il Parlamento ha approvato una legge sulla privacy che tutela la riservatezza dei dati sensibili”.

Il Grande Oriente d’Italia nelle settimane passate ha interpellato sul tema i presidenti dei gruppi parlamentari chiedendo loro una “opportuna e saggia valutazione” in merito alla richiesta avanzata dalla Commissione. Una lettera è stata inviata anche al Presidente della Repubblica e in seno al GOI è stato costituito un collegio difensivo composto da nove avvocati “incaricato di valutare e promuovere tutte le iniziative, anche giudiziarie, dinanzi alle competenti sedi istituzionali”.

Anche il Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, Antonio Binni, sentito in Commissione lo scorso 25 gennaio, ha risposto di non poter aderire alla richiesta. “C’è una legge sulla privacy e io non posso assolutamente commettere un reato e, soprattutto, non posso avere una libertà che i miei fratelli sicuramente non mi danno”, ha dichiarato Binni. Più utile sarebbe, secondo il Gran Maestro, una legge sulle associazioni che elimini le cosiddette obbedienze spurie. “Con una legge del genere, che in Francia esiste dal 1902, ciò che voi state facendo in questi giorni sarebbe stato inutile” ha detto Binni. Oggi chiunque può fondare una massoneria: “Ad Arezzo esistono novantadue obbedienze, in Italia ne hanno contate 198”, è la sua denuncia. “Sto pensando ad un provvedimento per cui se un fratello viene arrestato la Gran Loggia d’Italia si costituisce parte civile per offesa all’immagine della Massoneria”, ha infine precisato.

Seppure inizialmente favorevole, anche Massimo Criscuoli Tortora, Gran Maestro della Serenissima Gran Loggia d’Italia, aveva infine comunicato che neppure la Serenissima avrebbe consegnato gli elenchi dei propri iscritti per rispetto della legge sulla privacy. In un comunicato Criscuoli “si è dichiarato dispiaciuto di non poter aderire alla richiesta, ma il suo ruolo ed ufficio di garante della privacy dei membri della Serenissima gli impone di essere fermo nella decisione”.

Diversa la posizione del gran maestro Fabio Venzi, della Gran Loggia Regolare d’Italia, nata nel 1993 dalla volontà di 300 scissionisti allontanatisi dal GOI per la necessità di “mondare il Grande Oriente d’Italia dalle commissioni malavitose”. Tale Obbedienza consegna l’elenco dei suoi iscritti al Ministero dell’Interno due volte l’anno ed in sede di audizione il Gran Maestro aveva dichiarato la propria disponibilità a fornire gli elenchi. Ma nel frattempo le proposte di legge di modifica della Legge Anselmi, nella direzione di impedire ai funzionari della Pubblica amministrazione di essere iscritti alle logge, una presentata lo scorso 22 febbraio dal deputato Davide Mattiello, l’altra annunciata dal vicepresidente della Commissione antimafia Fava, hanno finito per irrigidire la posizione anche di quest’ultima Obbedienza.

L’indagine su mafia e massoneria della Commissione antimafia è stata avviata la scorsa estate. Il 20 luglio scorso la presidente della Commissione Bindi, in una conferenza stampa al termine della missione siciliana a Trapani, aveva dichiarato: “Torneremo a Roma con due filoni di inchiesta: far luce sulle stragi degli anni Novanta e sui legami tra Massoneria e Cosa nostra”, annunciando la convocazione dei Gran Maestri della massoneria.

“Siamo partiti da una serie di sollecitazioni, certamente dalle inchieste in corso a Trapani, Palermo, Catania, Reggio Calabria” spiega oggi Claudio Fava, “la Commissione ha valutato che questo fosse un terreno da esplorare con strumenti anche di indagine politica, che competono la commissione, e che sono per certi versi più invasivi di quelli dell’autorità giudiziaria che si muove soltanto in presenza di una notizia di reato”.

Le audizioni sono iniziate il 3 agosto scorso, con Bisi. E già dopo quella prima audizione il Grande Oriente aveva inviato alla Commissione una comunicazione in cui spiegava perché la Comunione si sarebbe opposta alla richiesta degli elenchi. Copione che si è ripetuto a dicembre, quando la Bindi è tornata a chiedere l’elenco dei nominativi, con particolare riferimento agli elenchi di Calabria e Sicilia, indicando come termine per la consegna il 20 gennaio 2017.

Il 18 gennaio Bisi è stato nuovamente convocato per una “audizione a testimonianza”, ricorrendo per la prima volta, in questa legislatura, a tale strumento. “Volevamo che fosse chiaro che l’obbligo di dire tutta la verità non era una richiesta informale, ma una necessità sostanziale – spiega Fava – siccome l’argomento era delicato e si erano registrate forti resistenze abbiamo pensato che fosse il caso di ascoltarli nella loro veste di testimoni, con l’obbligo di dire la verità”.

Il 24 e 25 gennaio scorsi sono stati invece sentiti Binni, Venzi e Criscuoli Tortora. Dopo le audizioni, il primo febbraio scorso la Commissione ha inviato una nuova missiva per sollecitare i tre gran maestri perché trasmettessero “con urgenza l’elenco integrale delle logge e dei nominativi di tutti relativi iscritti con priorità per le regioni Calabria e Sicilia”. Il termine perentorio era fissato per mercoledì 8 febbraio 2017.

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‘Ndrangheta, processo Ghota – Nei verbali dei pentiti l’intreccio tra massoneria, P2 e istituzioni

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Massoneria, ‘ndrangheta e pezzi dello Stato. Tutto contenuto nelle carte depositate giovedì 2 marzo alla prima udienza preliminare del processo “Ghota”. Affari sporchi che si intrecciano con massoni della P2 e istituzioni. Nei tre faldoni portati in aula bunker dai pm della Direzione distrettuale antimafia ci sono gli interrogatori di alcuni collaboratori di giustizia che rischiano di provocare in Calabria un terremoto che farà danni anche a Roma. Da quei verbali – al vaglio degli inquirenti per gli accertamenti del caso – escono nomi importanti: sottosegretari di Stato, parlamentari, politici regionali e mafiosi di rango. Ma anche magistrati e uomini in divisa che avrebbero partecipato a riti massonici. “I rapporti con i giudici li teneva solo don Gioacchino Piromalli – rivela il collaboratore di giustizia Antonio Russo -. Era l’unico che aveva il numero della segreteria privata di Andreotti”.

Il pentito: “I Piromalli hanno rapporti con i giudici”
Rivolgendosi al pm Stefano Musolino, che lo stava interrogando, il pentito cerca di non essere frainteso: “Dottore, quando parliamo dei Piromalli stiamo parlando di un’istituzione, stiamo parlando di un secondo Stato, sono di Piromalli. Vi parlo del processo ‘Tirreno’, tre fratelli coinvolti, due assolti, risarcimento dallo Stato e uno condannato. Su tre ha pagato solo uno. Hanno rapporti con i giudici dappertutto. Loro arrivano dappertutto dottore”. Grembiulini al servizio delle cosche che, per ottenere favori, secondo quanto ritiene il pentito, non hanno bisogno di esporsi. C’è chi lo fa per loro. “Non è che vanno direttamente dai giudici, ma per interposta persona. Loro hanno la chiave per arrivare al giudice, per aprire la porta, io su questo posso riferire, posso riferire su alcuni giudici. I Piromalli sono tutti massoni, Gioacchino Piromalli è massone, don Peppino Piromalli era massone”.

A un certo punto, il collaboratore Russo fa il nome del commendatore “Carmelo Cortese di Catanzaro” che “aveva i rapporti con Licio Gelli”. Stando all’interrogatorio, Cortese e don Gioacchino Piromalli erano iscritti alla stessa loggia: “Erano tutti con lui. C’era Paolo De Stefano, tutta la ‘ndrangheta c’era iscritta con il commendatore Cortese, colui il quale comandava l’ospedale militare di Catanzaro. Facevano questi riti di inizializzazione con la spada, tutti vestiti con i cappucci, avevano invitato anche a me ma non ci sono voluto entrare. A queste riunioni – secondo il racconto messo a verbale – dei templari era presente Stillitano Rocco Ivan, era presente Saverio Saltalamacchia (che era stato arrestato per droga mi pare questo ragazzo)… c’era il principe Romanov, è un pezzo grosso questo”. Ma anche “generali della Guardia di finanza, generali dei carabinieri, della polizia di stato, dei vigili del fuoco… tutti in alte uniformi”.

L’incontro con l’ex parlamentare Amadeo Matacena
Dei rapporti tra la ‘ndrangheta e la massoneria ha riferito anche un altro collaboratore di giustizia il cui verbale  ha arricchito gli oltre cinquanta fascicoli del processo “Ghota”. Si tratta di Marcello Fondacaro che, nel periodo universitario a Roma, tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90, divenne membro “della loggia Giustinianea”: “Ho avuto molti rapporti con la loggia di Piazza del Gesù – dice ai pm – di cui faceva parte anche Andreotti e altri uomini importanti”. Fondacaro riferisce ai magistrati di un incontro avvenuto a Roma molti anni fa con Amedeo Matacena, l’ex parlamentare di Forza Italia latitante oggi a Dubai dopo una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il collaboratore era una cena tra fratelli massoni: c’era don Stilo, l’avvocato Giuseppe Luppino, Luigi Emilio Sorridente (nipote di Peppe Piromalli), i suoi zii e Pietro Araniti: “A questa cena venne poi l’onorevole Luigi Meduri di Reggio Calabria… anche lui mi fu presentato come fratello, questa è la prima volta che io incontro i soggetti massoni…di altra loggia”.

Il calabrese Meduri è l’ex sottosegretario alle Infrastrutture arrestato nell’operazione “Dama nera” dalla procura di Roma che ha fatto luce su un giro di mazzette all’Anas. Il collaboratore si sofferma, inoltre, sulla figura di Luigi Emilio Sorridente: “Rappresentava la famiglia Molé-Piromalli nella raccolta ogni mese delle tangenti locali, così come nei rapporti per l’area portuale con i vari politici tra cui anche l’onorevole Fuda (l’ex senatore di Forza Italia oggi sindaco di Siderno, ndr) e l’onorevole Fedele (ex assessore regionale di Forza Italia coinvolto nell’inchiesta “Rimborsopoli”, ndr). Luigi Emilio era colui che doveva raccogliere i voti per conto della famiglia di Piromalli. Andavano per esempio dalle famiglie di Gioia Tauro dicendo ‘Vedete che mio zio e mio cugino vogliono che si voti Fuda, o Fedele o Meduri”.

Anche Fondacaro nomina Gelli. Nelle pieghe del verbale dedicate alla “deviazione della loggia Giustinianea”, infatti, il pentito rivela ai pm di aver saputo che quella loggia non era altro che “la P2, la ex P2 di Licio Gelli, perché Pino Strangio mi parlò proprio di questo, che lui era il gran maestro… di questa ne fa parte anche Vincenzo Ruggiero, il commercialista… il figlio di Gianni Ruggiero… che lui con l’onorevole… tramite questo ha avuto l’incarico… è stato assessore… consigliere provinciale… e in più lavora al ministero dell’Ambiente qui a Roma tramite questo onorevole che adesso mi sfugge il cognome… un sottosegretario del ministero dell’Ambiente che ha casa vicino al Colosseo. Sono stato invitato una sera pure lì per incontrarlo, abita nello stesso palazzo di Scajola, questo lo ricordo perfettamente che si vede proprio il Colosseo… onorevole…di Reggio Calabria comunque… me lo ricorderò”.

Nel verbale i pm inseriscono molti omissis
Durante l’interrogatorio, il pentito cerca di fare mente locale. Si sforza e alla fine ricorda il suo nome del politico calabrese: “È vicino a Paolo Romeo… l’onorevole Paolo Romeo (il principale imputato del processo “Ghota”, ritenuto una delle teste pensanti della ‘ndrangheta, ndr)… si chiama Elio Belcastro”. Non solo politici. “Ho sentito parlare anche di magistrati. Mi meravigliai tanto quando ne sentii parlare”. Il pentito è in fiume in piena ma su alcuni nomi i pm inseriscono gli omissis nel verbale depositato ieri. Non su tutti: “Tuccio, Tuccio… sì Tuccio”. I magistrati per Fondacaro “potevano fare molto con… loro avevano un ascendente… allora so che hanno aggiustato anche dei processi con la Cassazione, in modo particolare quello di Rocco Molé e di Nino Albanese con il magistrato famosissimo di Roma, Carnevale… per un vizio di forma… erano stati condannati ad un ergastolo, due ergastoli, una cosa del genere e poi furono… la Cassazione glielo smonto tramite Carnevale… c’entrano anche loro con le logge… avevano questi rapporti con i fratelli massoni”.

Il collaboratore fa il nome pure dell’ex governatore della Calabria Giuseppe Chiaravalloti, magistrato in pensione: “Sappiamo essere anche lui massone. Claudio La Russa, l’avvocato La Russa… che è un avvocato di Catanzaro… so che per alcune cose si è sempre dimostrato disponibile a sistemare qualche cosa, qualche processo che non andava… ma ripeto sempre come favore tra di loro massoni e tra di loro onorevoli ed altro… perché poi so che lo stesso Chiaravalloti divenne presidente della giunta regionale, quindi lasciando il posto di Procura e l’incarico che aveva presso la Procura di Reggio Calabria”.

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Mafia e massoneria, Grande Oriente contro don Ciotti: “Accostamento a ‘ndrangheta ci offende”

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“Le sue parole ci feriscono e ci offendono”. Stefano Bisi (nella foto con Rosy Bindi), gran maestro della più popolosa massoneria nazionale, il Grande Oriente d’Italia, scrive al fondatore e presidente dell’associazione Libera, don Luigi Ciotti. “Le devo sinceramente dire che quella sua frase sulla massoneria accostata alla ‘ndrangheta, alla corruzione e all’illegalità mi ha personalmente ferito come uomo e come massone” continua la missiva. Il riferimento è alle parole pronunciate da Ciotti a Locri lo scorso 21 marzo, in occasione della Giornata della memoria e del ricordo delle vittime della mafia. “Siamo qui perché amiamo la vita, per sostenere quella Calabria che non accetta di essere identificata con la `ndrangheta, la massoneria, la corruzione” aveva detto dal palco il presidente di Libera.

La polemica si inserisce nello scontro in corso tra le principali massonerie italiane e la commissione parlamentare Antimafia che, il primo marzo scorso, ha disposto il sequestro degli elenchi degli iscritti alle logge di Calabria e Sicilia. “Mi spiace e sono deluso che una personalità del suo calibro si metta in prima fila fra i tanti, facili opportunisti e professionisti dell’antimafia e che inneggi pure lei alla caccia alle streghe che qualcuno ha voluto forzosamente mettere in atto” continua nella lettera il gran maestro.

La documentazione sequestrata nelle sedi delle massonerie è attualmente custodita allo Scico della Guardia di Finanza, dove si sta procedendo all’estrazione dei nominativi richiesti dalla Commissione. L’Antimafia ha deliberato il sequestro degli elenchi degli iscritti di Sicilia e Calabria nell’ambito di un’indagine su mafie e massoneria avviata a seguito di una serie di inchieste giudiziarie realizzate in quelle regioni.

Il 18 marzo il Grande Oriente d’Italia, che si è dotato di un collegio difensivo di nove avvocati, ha presentato un’istanza di revisione per l’annullamento o revoca del sequestro. L’obbedienza ha indicato un termine di dieci giorni, che dunque coincide al prossimo 27 marzo, scaduto il quale promette di rivolgersi all’Autorità giudiziaria “al fine di ottenere, anche nei confronti dei singoli parlamentari membri della commissione, il ripristino della propria onorabilità e reputazione”.

Il collegio difensivo, si legge nei comunicati del Grande Oriente, “è aperto alle proposte sia del mondo del libero pensiero sia di coloro che hanno avvertito l’iniziativa della Commissione come preludio di una deriva populista e autoritaria”. In questo quadro si iscriverebbero, secondo il gran maestro Bisi, le proposte di legge avanzate dai deputati Davide Mattiello e Claudio Fava e finalizzate ad escludere gli iscritti alla massoneria da ruoli nella pubblica amministrazione.

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Massoneria, il Grande Oriente sfila a Milano: “Tra di noi anche vittime della mafia e compagni di sinistra”

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Di che cosa si occupano le logge massoniche nei loro incontri riservati? “Lavoriamo sulle coscienze per diventare uomini migliori. Parliamo di cultura e di diritto. Lunedì, alla mia officina (sinonimo di loggia, ndr) parleremo del diritto alla felicità nella Costituzione americana”. A rispondere è l’avvocato Antonino Salsone, presidente della circoscrizione Lombardia del Grande Oriente d’Italia. Venerdì 31 marzo il massone è stato invitato a dialogare per la prima volta con David Gentili, presidente della commissione antimafia del comune di Milano, nell’ambito del quinto Festival dei beni confiscati del capoluogo lombardo. La più grande organizzazione massonica italiana prova a parlare di sé proprio nel momento in cui sente che la commissione parlamentare Antimafia l’ha messa sotto tiro, pretendendo che il Grande Oriente d’Italia consegni all’autorità gli elenchi dei propri iscritti. L’investitura di Salsone è arrivata dall’alto: “Sono stato incaricato dal Gran Maestro Stefano Bisi in persona di parlare a nome del Grande Oriente d’Italia”, spiega.

La platea che lo ascolta non è usuale. Di circa ottanta i presenti, solo quattro o cinque sono donne. E un motivo si spiega: nel mondo della “libera muratoria” esistono logge solo per donne. Nonostante sia un venerdì sera e l’atmosfera del festival non sia assolutamente formale, i presenti sono di un’eleganza impeccabile. Troppo impeccabile. “L’80% dei presenti è massone”, rivela dunque Salsone. “Noi non siamo un’associazione segreta, semplicemente non ostentiamo la nostra appartenenza – prosegue – Sui nostri siti internet potete trovare i nomi di almeno mille iscritti che ricoprono ruoli istituzionali”. In totale gli iscritti sono 23 mila, divisi in 855 officine. E questo solo per il Goi, che in Lombardia conta 72 logge e oltre duemila iscritti. Le altre tre “obbedienze” ufficiali (Loggia Alam, Gran Loggia Regolare d’Italia, Serenissima Gran Loggia Reggia regionale d’Italia) sono nate con scissioni dal Goi e hanno un numero di iscritti di gran lunga inferiore. Chi non rientra in queste quattro obbedienze, appartiene a logge “spurie”, che – secondo una stima dello stesso Grande Oriente – sono almeno 140 in tutta Italia.

Al Festival dei beni confiscati, i presenti seguono le parole del presidente Salsone in religioso silenzio. Si leva qualche bisbiglio quando qualcuno interrompe il presidente oppure quando David Gentili fa delle domande su Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro. Dimessosi nel 1993, a gennaio Di Bernardo è stato ascoltato dalla commissione Antimafia. “Diverse sono le ragioni che portarono alle mie dimissioni da Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, ma quella che fu determinante fu connessa con l’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova. Vedo oggi ripresentarsi le stesse condizioni del 1992, quasi fosse una fotocopia”, ha dichiarato ai parlamentari di palazzo San Macuto. Parole che hanno aumentato i dubbi attorno all’organizzazione e ai suoi iscritti. Per il Grande Oriente d’Italia, Di Bernardo è “uno scismatico”, perché lasciato il Goi in concomitanza con l’inchiesta (poi archiviata nel 2000, ndr) ha fondato una sua obbedienza, la Gran Loggia Regolare d’Italia, screditando poi i “fratelli” del Grande Oriente. “L’Antimafia – dice Salsone – non può dimenticarsi di quanto l’organizzazione abbia fatto per il Paese. Noi giuriamo sulla Costituzione di questa Repubblica”. E cita, come massoni insospettabili che hanno contribuito a fondare l’Italia, Pietro Calamandrei, il presidente della Commissione dei 75 che scrisse la Costituzione Meuccio Ruini, Giorgio Amendola e persino l’apneista Enzo Maiorca: tutte persone ormai morte visto che un massone non può rivelare l’appartenenza all’ordine di un fratello.

“Anche noi – continua Salsone– abbiamo i nostri caduti nella lotta alla mafia e non lo dico per legittimarci perché non ne abbiamo bisogno”. L’avvocato Salsone un caduto per mano delle organizzazioni criminali lo ha avuto in famiglia. Una storia che condivide poco volentieri, ma che resta nelle pagine dei giornali. Il padre Filippo Salsone, maresciallo della polizia penitenziaria, stava rientrando a casa con i figli la sera del 7 febbraio 1986, quando venne colpito da una scarica di colpi: resta ucciso mentre il figlio Paolo – fratello dell’attuale presidente del Goi in Lombardia – rimane ferito. A sparare, dirà l’inchiesta, sono stati uomini di un clan camorristico. Oggi la casa circondariale di Reggio Calabria, dove lavorava, gli è stata dedicata. E non è l’unica sorpresa. Per quanto nei templi della “libera muratoria” “non entrino i metalli”, come in gergo sono definiti argomenti divisivi come politica e religione, un signore, all’uscita, si avvicina e dice: “Vi stupireste a sapere quanti compagni ci sono tra gli iscritti”.

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Emmanuel Macron, l’ultima frontiera della restaurazione europea

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Vado a cena con un mio collega parigino, decano di Science Po (dunque collega di Enrico Letta). Parliamo del nuovo corso politico francese e mi sbottono: «Emmanuel Macron è l’invenzione delle due realtà che nel tuo Paese ancora reggono: la Massoneria e l’Alta Finanza delle banche». Poi preciso di essere – comunque – consapevole delle differenze che corrono tra loro e l’Italia; i nostri cappucci e grembiulini tra il macchiettistico e il malavitoso, gli imbarazzanti bancomat atteggiati a istituti di credito.

L’interlocutore resta abbottonato. Forse gli sembra prematuro lanciarsi in un giudizio definitivo, la frequentazione del pesafumo Letta jr. può averlo influenzato, non ritiene prudente seguire l’interlocutore nei suoi azzardi da scavezzacollo… Eppure non smentisce. Poi osserva, parlando quasi tra sé e sé: «Certo che il primo Ministro Edouard Philippe è notoriamente un massone». Ma evita per creanza di coinvolgere in tale compagnia gli italioti; da Mario Monti a (probabilmente) il giovane Letta.

Del resto parliamo di una radicata tradizione d’Oltralpe; e le cronache del tempo riferiscono che il primo ministro transalpino Georges Clemenceau (1841-1929), detto “il Tigre”, quando rischiava di finire in minoranza era solito gridare «Au secours, la Vieille»; e i confratelli accorrevano a sostenerlo da tutti i rami del Parlamento.

Molta acqua è passata sotto i ponti – dalla Senna al Potomac o magari il Tevere – e ora l’antica fratellanza plutocratica si è rifatta il look, dalla Trilateral al Bilderberg Group e altri salotti dal lusso discreto; però continuano a restare in vigore riservatezze e solidarietà relazionali. Non meno di un apparato intellettuale da cinici stockholders, la cui palese indifferenza è finalizzata a tutelare gli interessi materialissimi della propria classe agiata. Come si inizia a intuire dietro il faccino sorridente, dalla boccuccia che schiudendosi lascia intravvedere le zanne, del nuovo inquilino dell’Eliseo. Il giovanotto che rimanda a casa con le pive nel sacco i pellegrini giunti da Roma implorando aiuto per la difficilissima gestione della faccenda immigrati e che si prepara a ricevere come ospite d’onore il 14 luglio il trucido plutocrate Donald Trump. Per intonare insieme sui Campi Elisi «liberté, egalité…».

Insomma, il 7 maggio scorso i circoli coperti della Ville Lumière hanno realizzato il loro capolavoro, trovando una soluzione allo spappolamento del quadro politico nazionale. Il problema è che la brillantissima operazione mediatica, impersonata dallo svelto giovanotto ricreato in vitro come leader politico, non affianca una altrettanto seria produzione di idee per il rinnovamento delle ricette politiche. Difatti – e non poteva essere diversamente – quello che appare “en marche” è l’ennesima rivisitazione della ventennale paccottiglia con cui Blair e Clinton avevano abbindolato il proprio elettorato di ceto medio, conducendolo come un gregge al macello. A riprova evidente che le plutocrazie non sono certo nella posizione di proporre la messa in discussione degli equilibri loro favorevoli.

Sicché – alla fine della cena – il mio commensale era disponibile ad ammettere che la “luna di miele” di Macron pare destinata a una rapida fine; non solo con il proprio elettorato, ma con l’intero sistema mediatico mondiale. Ennesima parabola di questi giovanotti genericamente modernizzanti che compaiono repentinamente sulla scena e la cui presa sul pubblico dura lo spazio di un mattino. Come abbiamo visto anche dalle nostre parti con il bulletto di Rignano.

Semmai fa riflettere che ancora non emerga una politica realmente innovativa, capace di mobilitare al cambiamento. Come lo furono il New Deal, il Welfare o l’Ostpolitik.

Ciò a cui noi europei stiamo assistendo sono solo operazioni di cosmesi, utili per mettere fuori gioco demagoghi da strapazzo tipo la Le Pen o il feticista olandese del capello Geert Wilders; magari inconcludenti disturbatori della quiete pubblica come Matteo Salvini o Beppe Grillo. Pure operazioni di facciata per consentire agli abitanti degli attici politici ed economici di prendere tempo. Ma per fare che cosa?

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La democrazia in stallo tra mafia e terrorismo

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Nel contesto italiano, la mafia è un tragico indicatore del fatto che il sistema politico ha talmente consolidato le sue basi, la sua organizzazione strutturale, da non consentire alcuna innovazione, quale che ne sia il tipo. Un’insorgenza sintomatica, insomma, di una situazione bloccata, al pari del terrorismo, fenomeno con il quale la mafia stessa condivide la predilezione per la violenza, anche se tra l’uno e l’altra corre una sostanziale differenza: quello mira a darsi una dimensione “pubblica” cercando un collegamento con le masse, la legittimazione, cioè, che trasformi i propri militanti in combattenti di una guerra civile; questa punta, invece, a ridurre qualsiasi affare pubblico a interesse privato.

A dimostrare, assai meglio di quanto non faccia l’evocazione di concetti quali lottizzazione, clientelismo, corruzione, la situazione di stallo in cui versa la democrazia italiana, concorrono del resto alcuni argomenti, fra loro logicamente correlati, relativi a certe sue anomalie strutturali, sulle quali il terrorismo ha basato almeno parte della sua ideologia antisistema e le mafie hanno costruito le proprie fortune.

Innanzi tutto, nell’Italia repubblicana, nata come Stato a sovranità limitata, agli apparati istituzionali di sicurezza, ma anche a libere organizzazioni come la massoneria, s’è assegnato un ruolo del tutto autonomo e originale, che li ha legittimati ad agire quasi fossero legibus soluti. Non mancano, in proposito, gli esempi di come i misteri di mafiosi e terroristi, abituati anch’essi ad agire nell’ombra, si siano intrecciati spesso con quelli dello Stato, generando a volte inestricabili combinazioni di arcana dominationis e arcana seditionis, dal coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi terroristiche alla mediazione della Camorra nella liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito nel 1981 dalle BR. E neppure mancano esempi di contaminazioni inquietanti fra terrorismo e mafia, quali il ricorso al metodo tipicamente mafioso della vendetta trasversale nel caso del rapimento e uccisione da parte delle BR, sempre nel 1981, di Roberto Peci, la cui colpa era d’essere il fratello di Patrizio, pentitosi alcuni mesi prima; ovvero il “terrorismo mafioso” delle stragi del 1993.

La presenza, peraltro, di un apparato occulto di potere ipertrofico, non soltanto circoscrive gli spazi pubblici della competizione democratica, ma ne altera i meccanismi concorrenziali, attribuendo un vantaggio illecito a chi già detiene certe cariche di governo, la cui posizione si rafforza: se, per un verso, le ineguaglianze, più politiche che sociali, determinano gradi diversi di libertà, con conseguenti maggiore libertà goduta, maggiore gamma delle scelte, maggiore repertorio di decisioni, e la possibilità di prevederne realisticamente gli esiti; per altro verso, relativamente al problema del crimine, chi è più potente possiede maggiore possibilità sia di attribuire le definizioni di criminalità agli altri e di respingere quelle che gli altri gli attribuiscono, sia di controllare gli esiti della propria condotta criminale, generalmente non facendola apparire come tale e ottenendo di vedere il proprio vizio tramutato addirittura in virtù.

Queste dinamiche distorte, finalmente, hanno, col tempo, alterato il ruolo dell’opposizione, trasformando la pratica democratica del compromesso in quella dello scambio di favori: se non vogliono essere esclusi del tutto dalla competizione, anche gli avversari politici devono cercare d’occupare posizioni di potere. Difficile non vedere come l’arena politica si sia frammentata in una pluralità di oligarchie, alle quali non corrisponde, però, alcuna autentica forma di pluralismo; come il movimento storico di centralizzazione dello Stato si sia invertito, producendo la riscoperta della periferia quale luogo privilegiato, mentale più ancora che fisico, della gestione delle risorse; come i potentati locali, perduta ogni connotazione ideologica, siano divenuti centri di smistamento d’interessi di natura prevalentemente economica; come l’elezione, ridotta a competizione amico-nemico, si giochi ormai sulla falsariga di un duello, mediatico più che reale, con tanto di regole e presunto codice d’onore, mentre il dibattito politico non recepisce temi che non siano facilmente riformulabili in slogan referendari e spendibili in manifestazioni plebiscitarie di consenso-opposizione. Ovvio che da questa nuova forma di competizione politica, se il terrorismo può teoricamente trarre nuove speranze di armare l’insoddisfazione degli esclusi, le mafie ricavano cospicui introiti e una, magari involontaria, legittimazione della propria subcultura del clan.

L’ultima indagine che ha investito la ’ndrangheta, nella Locride e, alcuni giorni or sono, decapitato 23 clan, ha condotto a emersione non solo strutture e cariche di nuovo conio in grado di sostituire e superare quelle svelate da pregresse inchieste e processi, ma anche veri e propri “tribunali” per reprimere chi violi le regole del sodalizio. Uno dei 116 finiti in manette, parlando con altro affiliato, avvalendosi del suo nome per ribadire il suo potere e il suo controllo sul territorio, non esita a definirsi Stato: “Lo Stato sono io qua, Pe’! … Controlla! La mafia. La mafia originale però, non la scadente“. Questo ulteriore sintomo del fatto che il potere legittimo è ormai incapace di svolgere i suoi compiti se non in modo ripetitivo, di rinnovarsi adeguandosi a nuove esigenze o nuovi stimoli, di svilupparsi e di autoregolarsi, ci pone prepotentemente di fronte all’interrogativo, a cui non ci si potrà sottrarre dal rispondere, se i mafiosi che ore rotundo si proclamano Stato siano protagonisti di una nuova forma di “privateering”, cioè di “guerra da corsa”, o siano ancora e pur sempre soltanto dei “pirati”.

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Massoneria, “in Sicilia e Calabria 200 iscritti coinvolti in inchieste di mafia”

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Sono circa duecento gli iscritti alla massoneria indagati, imputati o addirittura condannati per reati di tipo mafioso. Una condizione molto diffusa in Sicilia e Calabria dove i massoni in queste pendenze giudiziarie ricoprono spesso ruoli di alto grado all’interno delle logge.  Un numero che raddoppia se si prendono in considerazione i reati contro la pubblica amministrazione. A scriverlo è sito del Corriere della Calabria che racconta il contenuto di un “rapporto riservatissimo“, consegnato dalla Guardia di Finanza a Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia.

Era stato sempre palazzo San Macuto a incaricare i vertici dello Scico delle Fiamme Gialle di acquisire la documentazione sui massoni di Calabria e Sicilia. I militari, quindi, hanno sequestrato gli elenchi degli iscritti alle logge calabresi e siciliane delle associazioni massoniche Grande Oriente d’Italia, Gran Loggia Regolare d’Italia, Serenissima Gran Loggia d’Italia e Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori. Gli elenchi, che coprono un periodo compreso tra il 1990 e il 2016, sono stati poi incrociati con i precedenti penali dei vari iscritti: il risultato è finito dentro il rapporto attualmente custodito nella cassaforte della presidente dell’Antimafia.

In precedenza la stessa commissione aveva convocato per una formale audizione i vertici delle varie logge, chiedendo loro di consegnare gli elenchi dei “fratelli“. Alcuni Gran Maestri avevano acconsentito, altri invece opposero un secco e netto rifiuto. L’uno marzo del 2017, quindi, la guardia di finanza ha fatto irruzione nelle sedi nazionali delle quattro Obbedienze che non avevano dato seguito alle richieste di palazzo San Macuto. “Abbiamo chiesto più volte le liste, per più settimane, indicando come termine ultimo di consegna lo scorso 8 febbraio” spiegava Claudio Fava, vicepresidente della commissione. “Ci siamo dati un altro mese di tempo – continuava – alla fine oggi all’unanimità la commissione ha deliberato di accogliere la proposta dell’ufficio di presidenza e di procedere al sequestro”.

Tra i gran maestri che più di tutti avevano dato battaglia per non consegnare gli elenchi c’era il numero uno della Gran Loggia d’Oriente, Stefano Bisi, “accusato da alcuni fuoriusciti – scrive il giornale calabrese – di avere allargato le maglie per l’iscrizione, soprattutto in Calabria, consentendo l’ingresso di elementi collegati con la ‘ndrangheta“. Bisi si rifiutò di consegnare i suoi elenchi in nome del diritto alla privacy. E quando poi alla fine era stato ordinato il sequestro aveva commentato con una dichiarazione infuocata l’arrivo dei finanzieri: “Oggi è stata commessa una palese discriminazione nei confronti di una istituzione libera e secolare come la Massoneria e c’è stata una grave violazione della democrazia e delle leggi dello Stato. Il sequestro degli elenchi dei liberi muratori del Goi appartenenti alle logge di Calabria e Sicilia da parte della Commissione Antimafia è un atto arbitrario e intimidatorio“.

Lo stesso Bisi si era fatto segnalare nel marzo scorso per una lettera indirizzata a don Luigi Ciotti. “Le sue parole ci feriscono e ci offendono. Le devo sinceramente dire che quella sua frase sulla massoneria accostata alla ‘ndrangheta, alla corruzione e all’illegalità mi ha personalmente ferito come uomo e come massone” scriveva il massone nella sua missiva. Il riferimento era alle parole pronunciate dal fondatore di Libera a Locri il 21 marzo scorso, in occasione della Giornata della memoria e del ricordo delle vittime della mafia. “Siamo qui perché amiamo la vita, per sostenere quella Calabria che non accetta di essere identificata con la `ndrangheta, la massoneria, la corruzione” aveva detto dal palco il sacerdote.

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Massoneria, la relazione dell’Antimafia: “193 iscritti a logge sono coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata”

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Centonovantratre persone indicate dalla Direziona nazionale antimafia come iscritti in procedimenti penali fanno parte della massoneria. Ed è consistente il numero di soggetti che, pur non indagati, imputati o condannati per delitti di natura mafiosa, hanno collegamenti diretti con esponenti della mafia e possono costituire un anello di collegamento tra mafia e massoneria. A scriverlo è Rosy Bindi, nella relazione della commissione Antimafia sulla massoneria presentata a Palazzo San Macuto. Mesi di audizioni, indagini e ispezioni culminate con il sequestro degli elenchi delle logge  per scrivere oggi che “esiste un interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria fino a lasciare ritenere a taluno che le due entità siano divenute una cosa sola. Ciò non significa criminalizzare le obbedienze”. L’Antimafia si chiede però se le logge siano “dotate di anticorpi“. Anche perché con “il sequestro non è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono” e comunque “non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti, occulti grazie a generalità incomplete, inconsistenti o generiche. Il vincolo di solidarietà tra fratelli consente il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia, legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi e impone il silenzio” come emerge “in un caso di estrema gravità“.

“Arrendevolezza nei confronti della mafia” – Il tema del rapporto tra mafia e massoneria, spiega la relazione, “affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti in connessione sia con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e in Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione. Cosa Nostra siciliana e la ‘ndrangheta calabrese da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria. Da parte delle associazioni massoniche si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia. Sono i casi, certamente i più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza ch si rivelano i più preoccupanti”.  In tal senso sono indizi che il rapporto tra la massoneria e la mafia “si sia verificato anche nella stagione delle stragi, ci sono segnali inquietanti“.

“A Castelvetrano 4 assessori su 5 iscritti a logge” – I commissari spiegano che l’argomento è emerso con particolare rilevanza in occasione della missione effettuata a Palermo e a Trapani dalla stessa Commissione nel luglio 2016. “In quell’occasione è stato ripetutamente affrontato il tema del rapporto tra Cosa nostra e la massoneria in Sicilia anche in relazione alla vicenda dell’appartenenza a logge massoniche di alcuni assessori del comune di Castelvetrano (Tp) luogo di origine del noto latitante Matteo Messina Denaro”. Nel documento si ricorda che attualmente nel trapanese sono presenti 200 “fine pena” già detenuti per reati di mafia e di traffico di stupefacenti che, scontata la pena, ora sono in stato di libertà. Nel comune di Castelvetrano esistono 6 logge massoniche su 19 che operano nell’intera provincia di Trapani e nell’amministrazione comunale della cittadina, nel 2016, 4 su 5 assessori erano iscritti alla massoneria e 7 su 30 tra i consiglieri. Nella relazione si evidenzia anche che i fatti di Castelvetrano fanno il paio con le indagini delle autorità siciliana e calabrese, queste ultime sfociate nei procedimenti “morgana mammasantissima e Saggezza. In tutti i casi si evidenziano recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzano gravi fatti del passato “che lasciavano supporre l’esistenza delle infiltrazioni di Cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria”.

“Mafia nel settore bancario” – Sempre nella zona occidentale della Sicilia il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa ha di recente registrato “una significativa manifestazione all’interno del settore bancario“. Nel trapanese, infatti, è stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria la Banca di credito cooperativo di Paceco “Senatore Pietro Grammatico”. Negli atti giudiziari si riporta che all’interno dell’istituto c’erano 326 persone con evidenze giudiziarie, undici delle quali, dipendenti della banca, collegate con la criminalità organizzata. Dalle verifiche della Commissione antimafia, emerge che 11 tra esponenti della dirigenza aziendale e dipendenti hanno fatto parte di una loggia massonica del Goi.

“In Calabria coincidenza tra logge e sanità” –  C’è poi una coincidenza tra i nominativi presenti nelle relazioni di scioglimento o di commissariamento di alcuni enti pubblici, di alcune Asl o di banche e la loro presenza in alcune logge. “Questo – si legge nel documento – si evidenzia soprattutto a Castelvetrano, nella Asl n9 di Locri (commissariata) e nella Asp Cosenza. In particolare, nella Asl n.9 di Locri è stata evidenziata la presenza all’interno dell’azienda sanitaria di personale, medico e non, legato da stretti vincoli di parentela con elementi di spicco della criminalità locale o interessati da precedenti di polizia giudiziaria per reati comunque riconducibili ai consolidati interessi mafiosi“. Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi; di questi, 17 sono censiti in logge massoniche. Incrociando i dati, “deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria”, scrive Bindi. Per quanto riguarda la Asp di Cosenza – che nel 2013 ha avuto un accesso ispettivo ma non è stata poi commissariata – su 220 nominativi individuati presenti a vario titolo nella relazione conclusiva della Commissione di accesso, 23 persone risultano iscritte a logge massoniche”.

Il pentito Campanella: “Da logge informazioni a mafia” – Nella relazione la Bindi riporta anche le dichiarazione di un pentito eccellente di Cosa nostra siciliana: Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, già consigliere comunale vicino a uomini come Salvatore Cuffaro e Clemente Mastella. Campanella è l’uomo che aiutò a falsificare la carta d’identità del boss Bernardo Provenzano, poi usata dal superlatitante per andare in Francia e sottoporsi a un’operazione chirurgica. “C’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati la massoneria aveva importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione”, ha detto il collaboratore di giustizia nel verbarle riportato nella relazione conclusiva della commissione. “Campanella sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria – si ricorda nel documento -, aderendo alla loggia palermitana del Goi Triquetra, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandala il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano. La contemporanea adesione, quasi contestuale temporalmente (fine anni ’90), alle due diverse associazioni, non era osteggiata nè dall’una nè dell’altra parte. Mandala, infatti aveva ritenuto che potesse essere: una cosa interessante e che … sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera. Utilità, in effetti, giunte all’occorrenza. Attraverso i fratelli a lui più vicini, infatti, aveva acquisto informazioni utili dai Monopoli di Stato per la gestione delle sale Bingo (facente capo all’associazione mafiosa) nel momento più delicato in cui era intervenuto l’arresto di Mandala, e si temeva che tali esercizi potessero essere sequestrati”. Le sue dichiarazioni confermano – conclude l’Antimafia -, innanzitutto che l’appartenenza alla massoneria crea un vincolo esclusivo e permanente, che,” come avviene in Cosa nostra, si dissolve solo con la morte”.

“Riformare legge Anselmi” – È per questo motivo che alla fine della relazione la commissione di Palazzo San Macuto formula alcune richieste. Un esempio? “Una norma che vieti la segretezza di tutte le formazioni sociali, massoniche e non, che celino la loro essenza non potrebbe ritenersi discriminatoria e nemmeno persecutoria nei confronti della massoneria, come più volte paventato dalla stessa”. L’Antimafia suggerisce di estendere ad alcune categorie – magistrati, militari di carriera in servizio attivo, funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti consolari all’estero – oltre all’iscrizione ai partiti politici, già previsto, anche “il divieto ad aderire ad associazioni che richiedano, per l’adesione, la prestazione di un giuramento che contrasti con i doveri d’ufficio o impongano vincoli di subordinazione”, cosa che si oppone alla fedeltà assoluta alle istituzioni repubblicane. Infine la relazione dell’Antimafia evidenzia come la legge Spadolini-Anselmi “non ha offerto uno strumento adeguato” nemmeno per perseguire quanto prevede all’articolo 2, dove si dice che “chiunque promuove o dirige un’associazione segreta o svolge attività di proselitismo a favore della stessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La condanna importa la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Chiunque partecipa ad un’associazione segreta è punito con la reclusione fino a due anni. La condanna importa l’interdizione per un anno dai pubblici uffici”.

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Mafia e massoneria, parla il Gran maestro Bisi: “Infiltrazioni? Per me sono zero”. Su FqMillenniuM in edicola

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Infiltrazioni di mafia nella massoneria siciliana e calabrese? “Parlo per il Grande Oriente e dico che a me risulta zero. Come sa ci sono altre affiliazioni e non avanzo giudizi a nome di altri”. Ne è convinto Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la più importante delle massonerie con i suoi 23mila iscritti, che sull’onda delle polemiche sul lavoro della commissione parlamentare antimafia ha concesso un’intervista a FqMillenniuM, il mensile del Fatto diretto da Peter Gomez, nel numero attualmente in edicola.

Sessant’anni, senese, giornalista in pensione, Bisi è al vertice del Goi dal 2014. “Non ho altre parole che questa: persecuzione“, continua Bisi intervistato da Antonello Caporale (il colloquio è avvenuto prima che la commissione rendesse noto il risultato del lavoro sulle liste: 193 affiliati alle logge coinvolti in indagini di criminalità organizzata). “Non si è mai visto un accanimento simile nei confronti di associati che si ritrovano per riflettere, ridefinire l’esistente secondo i principi della libertà e dell’uguaglianza».

E la trasparenza? “Le rispondo con una frase di Stefano Rodotà, a lungo garante della privacy”, riprende il Gran maestro. “La trasparenza assoluta è tipica dei regimi totalitari”, afferma, annunciando l’intenzione di portare la commissiona presieduta da Rosy Bindi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Nell’intervista a FqMillenniuM, il Gran maestro affronta diversi nodi che da sempre accompagnano il dibattito su logge e cappucci, dalla totale riservatezza di nomi e riti, alle vicende della P2, alle accuse di fare “cricca” per promuovere affari e carriere, fino all’esclusione delle donne, a cui sono riservate alcune logge a parte. Ma la parità di genere è di là da venire: “Siamo molto affezionati alle nostre tradizioni, e certo ci vorrà tempo prima che un cambiamento così rilevante possa accadere”.

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Mafia e massoneria, Bindi: “Reciproche utilità e interessi. La segretezza è pericolosa, va proibita”

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“Emerge con molta chiarezza un grande interesse da parte delle associazioni mafiose verso la massoneria e una sorta di arrendevolezza da parte di quest’ultima che consente alle mafie di interloquire con le classi dirigenti”. Lo ha detto la presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, a margine della presentazione della Relazione sulle infiltrazioni mafiose nella massoneria in Sicilia e Calabria.

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