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Massoneria, il Grande Oriente sfila a Milano: “Tra di noi anche vittime della mafia e compagni di sinistra”

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Di che cosa si occupano le logge massoniche nei loro incontri riservati? “Lavoriamo sulle coscienze per diventare uomini migliori. Parliamo di cultura e di diritto. Lunedì, alla mia officina (sinonimo di loggia, ndr) parleremo del diritto alla felicità nella Costituzione americana”. A rispondere è l’avvocato Antonino Salsone, presidente della circoscrizione Lombardia del Grande Oriente d’Italia. Venerdì 31 marzo il massone è stato invitato a dialogare per la prima volta con David Gentili, presidente della commissione antimafia del comune di Milano, nell’ambito del quinto Festival dei beni confiscati del capoluogo lombardo. La più grande organizzazione massonica italiana prova a parlare di sé proprio nel momento in cui sente che la commissione parlamentare Antimafia l’ha messa sotto tiro, pretendendo che il Grande Oriente d’Italia consegni all’autorità gli elenchi dei propri iscritti. L’investitura di Salsone è arrivata dall’alto: “Sono stato incaricato dal Gran Maestro Stefano Bisi in persona di parlare a nome del Grande Oriente d’Italia”, spiega.

La platea che lo ascolta non è usuale. Di circa ottanta i presenti, solo quattro o cinque sono donne. E un motivo si spiega: nel mondo della “libera muratoria” esistono logge solo per donne. Nonostante sia un venerdì sera e l’atmosfera del festival non sia assolutamente formale, i presenti sono di un’eleganza impeccabile. Troppo impeccabile. “L’80% dei presenti è massone”, rivela dunque Salsone. “Noi non siamo un’associazione segreta, semplicemente non ostentiamo la nostra appartenenza – prosegue – Sui nostri siti internet potete trovare i nomi di almeno mille iscritti che ricoprono ruoli istituzionali”. In totale gli iscritti sono 23 mila, divisi in 855 officine. E questo solo per il Goi, che in Lombardia conta 72 logge e oltre duemila iscritti. Le altre tre “obbedienze” ufficiali (Loggia Alam, Gran Loggia Regolare d’Italia, Serenissima Gran Loggia Reggia regionale d’Italia) sono nate con scissioni dal Goi e hanno un numero di iscritti di gran lunga inferiore. Chi non rientra in queste quattro obbedienze, appartiene a logge “spurie”, che – secondo una stima dello stesso Grande Oriente – sono almeno 140 in tutta Italia.

Al Festival dei beni confiscati, i presenti seguono le parole del presidente Salsone in religioso silenzio. Si leva qualche bisbiglio quando qualcuno interrompe il presidente oppure quando David Gentili fa delle domande su Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro. Dimessosi nel 1993, a gennaio Di Bernardo è stato ascoltato dalla commissione Antimafia. “Diverse sono le ragioni che portarono alle mie dimissioni da Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, ma quella che fu determinante fu connessa con l’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova. Vedo oggi ripresentarsi le stesse condizioni del 1992, quasi fosse una fotocopia”, ha dichiarato ai parlamentari di palazzo San Macuto. Parole che hanno aumentato i dubbi attorno all’organizzazione e ai suoi iscritti. Per il Grande Oriente d’Italia, Di Bernardo è “uno scismatico”, perché lasciato il Goi in concomitanza con l’inchiesta (poi archiviata nel 2000, ndr) ha fondato una sua obbedienza, la Gran Loggia Regolare d’Italia, screditando poi i “fratelli” del Grande Oriente. “L’Antimafia – dice Salsone – non può dimenticarsi di quanto l’organizzazione abbia fatto per il Paese. Noi giuriamo sulla Costituzione di questa Repubblica”. E cita, come massoni insospettabili che hanno contribuito a fondare l’Italia, Pietro Calamandrei, il presidente della Commissione dei 75 che scrisse la Costituzione Meuccio Ruini, Giorgio Amendola e persino l’apneista Enzo Maiorca: tutte persone ormai morte visto che un massone non può rivelare l’appartenenza all’ordine di un fratello.

“Anche noi – continua Salsone– abbiamo i nostri caduti nella lotta alla mafia e non lo dico per legittimarci perché non ne abbiamo bisogno”. L’avvocato Salsone un caduto per mano delle organizzazioni criminali lo ha avuto in famiglia. Una storia che condivide poco volentieri, ma che resta nelle pagine dei giornali. Il padre Filippo Salsone, maresciallo della polizia penitenziaria, stava rientrando a casa con i figli la sera del 7 febbraio 1986, quando venne colpito da una scarica di colpi: resta ucciso mentre il figlio Paolo – fratello dell’attuale presidente del Goi in Lombardia – rimane ferito. A sparare, dirà l’inchiesta, sono stati uomini di un clan camorristico. Oggi la casa circondariale di Reggio Calabria, dove lavorava, gli è stata dedicata. E non è l’unica sorpresa. Per quanto nei templi della “libera muratoria” “non entrino i metalli”, come in gergo sono definiti argomenti divisivi come politica e religione, un signore, all’uscita, si avvicina e dice: “Vi stupireste a sapere quanti compagni ci sono tra gli iscritti”.

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‘Ndrangheta, il senatore Caridi resta in carcere. “Uso deviato del ruolo pubblico”

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Il senatore Antonio Caridi di Gal resta in carcere. Lo ha deciso il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria che, per la seconda volta e dopo l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione a inizio marzo, ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip l’estate scorsa nei confronti del parlamentare calabrese accusato di associazione mafiosa e, in particolare, di far parte di quella componente “riservata” della ‘ndrangheta in grado di dettare le linee strategiche dell’intera organizzazione criminale.

Arrestato nell’ambito dell’operazione “Mamma santissima”, nelle scorse settimane Caridi è stato rinviato a giudizio nel processo “Ghota” in cui la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha riunito le più importanti inchieste contro le cosche reggine. Il processo per Caridi è iniziato giovedì e alla sbarra, tra gli altri, c’è l’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare del Psdi già condannato per concorso esterno e ritenuto testa pensante di quello che il pm Giuseppe Lombardo definisce il “direttorio” della ‘ndrangheta, composto anche dall’avvocato Giorgio De Stefano.

Quest’ultimo, però, ha scelto il rito abbreviato. Alla sbarra nel troncone andato ordinario, con Caridi e Romeo ci sono pure l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra e un’altra trentina di persone coinvolte nel processo “Ghota” che rischia adesso di riscrivere la storia della ‘ndrangheta di Reggio Calabria capace “di interagire sistematicamente e riservatamente con gli ambienti politici, istituzionali ed imprenditoriali al fine di infiltrarli ed asservirli ai propri interessi criminali”.

Secondo il pm Lombardo, il senatore Caridi è stato uno dei politici al servizio di Giorgio De Stefano e Paolo Romeo i quali avrebbero infiltrato loro “uomini” negli enti locali e addirittura in Parlamento. Il processo accerterà, infatti, “l’uso deviato del ruolo pubblico” di Caridi non solo da quando è senatore della Repubblica ma anche nelle “cariche di volta in volta ricoperte all’interno del Consiglio e della Giunta comunale di Reggio, del Consiglio e della Giunta regionale della Calabria”.

Erano i tempi i cui Caridi è cresciuto politicamente al fianco dell’ex governatore della Regione e sindaco di Reggio, Giuseppe Scopelliti, la cui abitazione è stata perquisita l’estate scorsa perché indagato per reato connesso in un’altra inchiesta della Dda collegata a “Mamma Santissima”. Ma erano anche i tempi in cui, secondo i magistrati, la politica reggina e calabrese rispondeva a Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, soggetti “cerniera” in grado di interagire tra l’ambito “visibile” e quello “occulto” della ‘ndrangheta che aveva l’obiettivo di “alterare l’equilibrio degli organi costituzionali”.

Non è un caso che, Paolo Romeo sia riuscito attraverso le sue associazioni culturali a introdursi nel dibattito per la “città metropolitana” e farsi ricevere addirittura al Senato dall’ufficio di presidenza della Commissione Affari costituzionali, guidato all’epoca da Anna Finocchiaro, oggi ministro del governo Gentiloni. Nel processo “Ghota”, che riprenderà il prossimo 18 maggio, è coinvolto anche il magistrato in pensione Giuseppe Tuccio e il prete di San Luca don Pino Strangio accusati assieme a Paolo Romeo, Giorgio De Stefano e altri di aver violato la legge Anselmi e di aver costituito un’associazione segreta.

Al centro dell’inchiesta “Mamma Santissima” e delle altre indagini della Dda (coordinate dai pm Giuseppe Lombardo, Stefano Musolino, Roberto Di Palma, Walter Ignazzito e Giulia Pantano) c’è il rapporto tra ‘ndrangheta e massoneria. Nel fascicolo del processo, infatti, sono finiti numerosi verbali di massoni che hanno spiegato come funzionavano le logge e come, in riva allo Stretto, venivano aperte logge deviate. L’obiettivo dei magistrati è quello di dimostrare come grembiulini e clan legati alla destra eversiva e con progetti separatisti, in determinati momenti storici, hanno cercato di minare l’ordine costituzionale per poi trovare spazio nelle istituzioni e condizionarle.

Ritornando al senatore Caridi, adesso si attendono le motivazioni del Tribunale del Riesame che arriveranno tra qualche settimana quando gli avvocati del parlamentare, Valerio Spigarelli e Carlo Morace, decideranno se ricorrere di nuovo alla Cassazione. A proposito di Cassazione, stamattina gli “ermellini” hanno accolto la richiesta degli avvocati Morace e Cutrupi e hanno annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale della Libertà emessa nei confronti di Paolo Romeo nell’ambito dell’inchiesta “Fata Morgana”, poi confluita nel processo denominato “Gotha”.

Il Riesame, quindi, dovrà giudicare di nuovo l’ex parlamentare del Psdi in merito alla misura cautelare disposta per un’estorsione ai danni di un commerciante, per la violazione della legge Anselmi e per due turbative d’asta. Per una terza turbativa d’asta, invece, la Cassazione ha confermato l’ordinanza di arresto di Paolo Romeo che, intanto, resta in carcere.

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Agrigento, mafia e massoneria a braccetto. Ros esegue sette fermi su ordine della Dda: c’è anche funzionario regionale

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Mafia e massoneria a braccetto. È il legame che viene rivelato dall’inchiesta antimafia della Dda di Palermo che all’alba di oggi ha emesso sette fermi. In manette anche un funzionario regionale. Gli indagati, a vario titolo, sono accusati di associazione mafiosa e concorso esterno in associazione mafiosa. Nel corso dell’inchiesta, tra Licata e Palermo, sono state documentate “qualificate dinamiche associative funzionali alla infiltrazione di rilevanti attività imprenditoriali in via di realizzazione nell’agrigentino – dicono gli inquirenti – e il ruolo occupato all’interno del sodalizio da due massoni che ricoprivano il ruolo di maestri venerabili di due distinte logge”. Al centro delle indagini del Ros la famiglia mafiosa di Licata (Agrigento), di cui sono stati delineati gli assetti e le gerarchie. Nell’indagine sarebbe emerso che alcuni mafiosi avrebbero ottenuto sconti sul pagamento delle spese di giustizia, processi e carcere. 

Al centro delle indagini “c’è la famiglia mafiosa di Licata, al cui vertice” per gli inquirenti c’era il pregiudicato Giovanni Lauria “che presiedeva a riunioni ed incontri con gli altri associati, gestendo e pianificando tutte le relative attività ed affari illeciti, mantenendo il collegamento con esponenti di altre famiglie di cosa nostra della Sicilia Orientale, al fine di progettare la realizzazione di attività volte ad alterare le ordinarie e lecite dinamiche imprenditoriali”.

I provvedimenti della Dda hanno riguardato Giovanni Lauria, 79 anni, detto “il professore”, Vito Lauria, 49 anni, (figlio di Giovanni), Angelo Lauria, 45, Giacomo Casa, 64, Giovanni Mugnos, 53, Raimondo Semprevivo, 47, Lucio Lutri, 60 anni. L’indagine ha preso spunto dai rapporti documentati dai carabinieri tra il capomafia Salvatore Seminara (ritenuto all’epoca al vertice della famiglia di Caltagirone) e i suoi accoliti e dall’altra alcuni esponenti mafiosi licatesi capeggiati da Giovanni Lauria. Il legame, secondo gli inquirenti, doveva servire a infiltrarsi nei lavori per alla realizzazione di un importante complesso turistico alberghiero e alla demolizione di immobili abusivi nel Comune di Licata. Secondo la procura il funzionario pubblico “ha sistematicamente messo a disposizione della consorteria mafiosa la privilegiata rete di rapporti intrattenuti con altri massoni professionisti ed esponenti delle istituzioni”.

In cambio del suo aiuto alla cosca il funzionario, che in una intercettazione diceva “ma chi minchia ci deve fermare più?”, otteneva favori. L’insospettabile ruolo svolto è “sintetizzato nelle parole pronunciate proprio da Giovanni Mugnos il quale, oltre ad alludere alla protezione che la provincia mafiosa riferibile a Matteo Messina Denaro eserciterebbe in favore di Lutri chiariva che il nominato massone ha due facce… una… e due… e come se io la mattina quando mi sveglio e con una mano tocco il crocifisso e “dra banna” ho il quadro di Totò Riina e mi faccio la croce”

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Caos Csm, gli intrecci degli anni bui della Repubblica sono ancora in piedi

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Negli incontri si celano i segreti della Repubblica, ma soprattutto si mettono in funzione gli ingranaggi di quel perverso rapporto tra politica, massoneria, mafia e magistratura che ha reso instabile la nostra democrazia. Seguendo le intercettazioni e le carte del processo di Lecce che ha portato all’arresto dei magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi e individuato altri magistrati coinvolti, ci si accorge ad occhio nudo come questo intreccio che ha caratterizzato gli anni bui della Repubblica sia ancora in piedi, vivo e vegeto, e si muova sempre con gli stessi rituali.

Dagli incontri emersi dalle intercettazioni di Luca Palamara scopriamo che Luca Lotti, Ferri e altri magistrati si incontravano di notte per decidere gli incarichi direttivi da assegnare di giorno. Nelle intercettazioni del giudice Nardi, tuttora agli arresti per corruzione in atti giudiziari nel processo di Lecce, scopriamo che un riferimento essenziale a Roma del magistrato è Cosimo Ferri, parlamentare del Pd, membro del Csm e sottosegretario del ministero di Grazia e Giustizia del ministro Andrea Orlando.

Nardi, come si apprende dalle intercettazioni dei Carabinieri, chiama Ferri – allora sottosegretario – per incontrarlo a proposito di un procedimento disciplinare che lo vede coinvolto e che può nuocere alla sua carriera. Ferri gli dice di passare dal ministero il martedì successivo. Dopo l’incontro Nardi, che ha una linea diretta con la segreteria di Ferri, manda al ministero tutte le carte che a suo dire potrebbero modificare le sorti di quella relazione negativa nei suoi confronti. In queste carte campeggia quello che Nardi definisce in altra intercettazione “asso nella manica”, “carta da giocare al momento giusto”, un parere in suo favore di Arcibaldo Miller.

Chi è Miller? Un magistrato in servizio a Napoli, con il quale questa storia ha una cosa in comune: cene e incontri notturni. Quello di Arcibaldo Miller, per cui verrà indagato insieme proprio a Cosimo Ferri sulla cosiddetta P3, avviene il 23 settembre del 2009. L’incontro si tiene proprio nell’abitazione di Denis Verdini. All’incontro erano presenti Flavio Carboni, Arcangelo Martino, Pasquale Lombardi, Marcello Dell’Utri (condannato per mafia), Giacomo Caliendo, Antonio Martone. Anche in questo incontro si decidevano cose importanti: le sorti della Regione Campania ed altre questioni su cui l’inchiesta è ancora aperta. Nardi, che ha il padre Vincenzo ex ispettore – come Miller, utilizzato da Bettino Craxi per controllare il pool di Mani pulite – con Miller condivide un’altra passione, per cui lo stesso Miller era stato indagato con archiviazione: la vicinanza ad ambienti massonici, accertata dagli investigatori, e a imprenditori legati alla criminalità organizzata.

In un’intercettazione dei Carabinieri, Nardi parla con un suo amico massone e non si scandalizza minimamente quando questi gli dice: “sto coi capi clan dei Capriati [di Bari, ndr] che devono partecipare a un’asta a Trani…” e quando questi gli dice che potranno aggiustare le cose col giudice a Catanzaro, relativamente al processo pendente contro Nardi, quando l’amico gli dice “in stile ‘ndrangheta”, non batte ciglio. Insomma il meccanismo che sta venendo fuori grazie anche alla legge Spazzacorrotti, alle captazioni e alla professionalità degli investigatori possiede delle costanti che si ripetono, e che rendono l’intreccio politica/magistratura/mafia/massoneria più vivo che mai anche in questi giorni.

Nardi, sapendo già di essere sotto inchiesta per corruzione a Lecce, in un messaggio sms rivolgendosi a Savasta che doveva trasferirsi scrive: ”Sarebbe l’ideale trasferirsi nel distretto di Lecce per liberarsi dalla loro persecuzione”. E Savasta, colto da un attimo di buonsenso e che come Nardi ha ricevuto un avviso di garanzia per corruzione dal Tribunale di Lecce, gli risponde: ”Non posso andarci”. Infatti alla fine Savasta andrà a Roma dove incontrerà Lotti, Ferri, entrando più a fondo nel meccanismo, cui Nardi era giunto per eredità paterna.

Altro elemento fondamentale del meccanismo che viene fuori dalle inchieste è che gli ispettori come Miller e Nardi padre hanno sempre da parte della politica una attenzione favorevole. Miller ottiene da Nicola Zingaretti, l’11 maggio del 2019, un incarico per un Ente regionale di pubblica assistenza a 2mila euro lordi al mese. Va meglio a Nardi padre, che ottenne dal Comune di Trani un incarico dal 2010 al 2018 come consulente in una municipalizzata a 4mila euro lordi, ritoccata negli ultimi quattro anni a 3mila. Un vitalizio di fine carriera.

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Gotha, il libro di Claudio Cordova sul legame tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati: “Indagine sulle storie più oscure d’Italia”

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Un’inchiesta che affonda le radici nella storia della ‘ndrangheta svelando legami con massoneria, ambienti eversivi e mondo delle istituzioni. Emergono amicizie, relazioni e collegamenti tra uomini di altissimo livello e cosche. Un sistema di potere capace di rafforzarsi, rigenerarsi e mutare nonostante le sanguinose guerre tra clan, le morti e gli arresti. Attraverso fonti giudiziarie inedite il libro dimostra come le famiglie calabresi entrino prepotentemente in alcune delle storie più oscure d’Italia: dal tentato Golpe Borghese, alla strategia della tensione, passando per il rapimento di Aldo Moro, fino ad arrivare alla P2 e agli attentati contro le istituzioni negli anni ’90. Una ‘ndrangheta che si infiltra ovunque: nell’economia, nel sociale, nella chiesa e negli ambienti para-istituzionali, come i servizi segreti deviati. Ma soprattutto si muove bene tra le nuove forze politiche

GOTHA – di Claudio Cordova
Con la prefazione di Francesco Cafiero De Raho

Edito da PaperFirst
In libreria da giovedì 3 ottobre

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‘Ndrangheta, trovate in un garage a Reggio Calabria armi da guerra ed esplosivo. Anche cocaina con il simbolo della massoneria

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Un arsenale con tanto di pistole, fucili, mitragliatrici ed esplosivo. Armi da guerra ma anche un panetto di cocaina, da oltre un chilo, con impresso il simbolo della massoneria. Forse un market dove le cosche si rifornivano in caso di necessità, una sorta di “store dell’illecito”. Più probabilmente, il segnale che a Reggio Calabria sta succedendo qualcosa nelle dinamiche della ‘ndrangheta dopo gli arresti dell’estate scorsa che hanno colpito la cosca Libri e i processi che, in questi anni, hanno portato in carcere i boss delle più importanti famiglie mafiose. Alcuni, però, sono usciti dopo aver scontato la loro pena. Altri stanno per farlo e pretendono più spazio nel territorio.

I sintomi di tensioni tra cosche ci sono tutti e i sequestri di armi eseguiti nelle ultime settimane lo dimostrano. L’ultimo è quello di giovedì scorso nella zona di via Sbarre Superiori, un quartiere a Sud di Reggio, dove nell’ambito di un’indagine “tradizionale” la guardia di finanza ha perquisito i garage di un condominio. In uno di questi gli uomini del colonnello Flavio Urbani, del maggiore Giovanni Andriani e del capitano Flavia Ndriollari hanno trovato oltre 2 chili e mezzo di esplosivo, un chilo e 100 grammi di cocaina, due pistole mitragliatrici, 6 fucili da caccia, un fucile a canne mozze, 4 pistole semiautomatiche, una pistola a tamburo calibro 38 special, due strozzatori per fucile da caccia e oltre 500 cartucce.

Il tutto era nascosto su un pianale di legno che costituiva un soppalco artigianale. Come ha riportato la Gazzetta del Sud, all’interno del garage sono state trovate anche numerose magliette e felpe con lo stemma e il nome di una squadra di calcio, l’ “A.S.D. San Giorgio”, che gioca in Promozione a Reggio Calabria. Ma anche una maglietta dell’Inter con il numero “10” e la scritta “Tullio”. Attorno all’abbigliamento, inoltre, c’erano residui di cocaina e imballaggi di confezionamento della droga.

In flagranza di reato è stato arrestato Giovanni D’Ascola, 31 anni. Era lui ad avere la disponibilità del garage di proprietà di un soggetto, risultato estraneo, che glielo aveva affittato. In realtà è proprio la figura dell’arrestato che spinge gli inquirenti a ritenere che dietro la “santabarbara” sequestrata in via Sbarre Superiori ci siano esponenti della criminalità organizzata. Già fermato nel 2007 perché trovato in possesso di alcune dosi di sostanza stupefacente, infatti, D’Ascola è imparentato con i boss Borghetto, storicamente federati alla cosca Libri e oggi, forse, intenzionati a ritagliarsi uno spazio più importante negli ambienti mafiosi reggini. Questo anche grazie ai rapporti che hanno stretto sia con le famiglie più influenti della città, sia con i gruppi criminali utilizzati, negli anni, come manovalanza. Se così fosse, alle tensioni che si stanno registrando da tempo nella zona di Gallico (periferia nord di Reggio), si aggiungerebbero quelle del rione Modena-Ciccarello territorio dei Borghetto-Zindato.

Il potenziale dell’arsenale sequestrato farebbe ipotizzare che D’Ascola abbia avuto dei complici rimasti a piede libero. Secondo gli inquirenti, non ci sono dubbi che è stato lui ad affittare il garage. Di certo, però, non ha lo spessore criminale per agire da solo. Ecco perché il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e il sostituto della Dda Walter Ignazitto stanno indagando per capire se D’Ascola sia uno degli armatori della ‘ndrangheta o solo la “testa di legno” utilizzata da chi quelle armi è in grado di utilizzarle. Anche la scritta “Tullio” stampata nella maglietta numero 10 dell’Inter rimanda al nome di battesimo di alcuni esponenti della famiglia Borghetto, molti dei quali appassionati di calcio e coinvolti in recenti inchieste contro la ‘ndrangheta.

Saranno le successive indagini a fornire ai pm nuovi elementi sull’ipotesi che qualcuno, in riva allo Stretto, è pronto a gesti eclatanti. Resta da capire a cosa servivano le mitragliatrici e le pistole. Ma soprattutto gli oltre due chili di gelatina dinamite, a base di nitroglicerina, ad altissimo potenziale. Si tratta di un esplosivo particolarmente sensibile che, dopo la campionatura, è stato distrutto dalla guardia di finanza perché, decomponendosi, sarebbe diventato altamente instabile. Se assemblato correttamente alla miccia a lenta combustione e al detonatore sequestrati all’interno del garage, le cosche avrebbero potuto utilizzarlo per la realizzazione di un cosiddetto I.E.D. (Improvised Explosive Device), una bomba con elevatissime capacità offensive. In altre parole: ordigni che, se esplodessero, a Reggio Calabria potrebbero provocare danni superiori alle mine anticarro che si usano in guerra.

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Il giornalista al massone ed ex M5s Vitiello: “In Italia Viva di nuovo c’è poco”. Lui replica: “Falso, ci sono io”

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“Condividevo i valori del M5s perché loro si ponevano come il nuovo e io pensavo di poter trovare una mia dimensione in quel contesto. In Italia Viva di nuovo c’è il progetto e, soprattutto, ci sono io. Perché no? Sì, sono io il nuovo di Italia Viva“. È la risposta che dà Catello Vitiello, ex Movimento 5 stelle (espulso durante la campagna elettorale perché iscritto alla loggia napoletana “Sfinge”, aderente al Grande Oriente d’Italia), a margine della presentazione di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, a Napoli.

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Gotha, il libro sui legami tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi: “Lotta a mafia? Scomparsa da agenda, Calabria sia caso nazionale”

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Un’inchiesta che ricostruisce la storia e le radici della ‘ndrangheta, per svelare i legami e i rapporti oscuri con il mondo della massoneria, della destra eversiva, dei servizi deviati e del mondo delle istituzioni. È lo scenario inquietante che emerge da ‘Gotha‘, il libro del giornalista Claudio Cordova, edito da Paper First e presentato a Roma insieme a Marco Lillo, vicedirettore de ‘Il Fatto Quotidiano’ e responsabile della collana di libri, e al procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, che ha curato la prefazione del volume.
Un libro-inchiesta dal quale emergono amicizie, relazioni e collegamenti tra uomini di altissimo livello, pezzi deviati dello Stato e cosche. Un sistema in grado rafforzarsi, rigenerarsi e cambiare, al di là delle guerre tra clan, delle inchieste della magistratura, del sangue e degli arresti. Attraverso fonti giudiziarie inedite, ‘Gotha’ mostra come le famiglie calabresi siano state protagoniste di alcune delle storie più oscure d’Italia: dal tentato Golpe Borghese, alla strategia della tensione, passando per il rapimento di Aldo Moro, fino ad arrivare alla P2 e alla strategia stragista di Cosa Nostra, con gli attentati contro le istituzioni negli anni ’90. Una ‘ndrangheta in grado oggi di infiltrarsi ovunque, dall’economia, al sociale, dalla chiesa agli ambienti para-istituzionali, come i servizi segreti deviati, ma soprattuto nella politica. Anche grazie al suo rapporto con la massoneria. E, come ricorda lo stesso autore Claudio Cordova, è riuscita, grazie alla sua capacità di restare quasi sotto traccia, in silenzio, a diventare “la mafia più potente, la più ricca, in grado di essere presente e fare affari in tutti i continenti”. E lo Stato? “Ha dimenticato la lotta alle mafie, nella sua agenda non ce n’è traccia. Forse si è illuso di averle sconfitte con la fine della stagione delle stragi. Ma non è così”, ha rivendicato. E ancora: “La Calabria è stata un laboratorio criminale. Oggi lì succede di tutto, cose gravissime. Ma nessuno sa nulla. Potrà risollevarsi sotto il profilo politico, economico e sociale soltanto quando questo diventerà un caso nazionale

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Sicilia, la dirigente dell’ente è indagata nel caso Montante e citata in informative su massoneria. Fava: “Va rimossa”

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Il suo nome è tra gli indagati in uno dei filoni sull’ex paladino dell’Antimafia, Antonello Montante. Il suo volto nei fascicoli sui massoni che proteggono la latitanza di Matteo Messina Denaro. E da alcune settimane presiede il ‘Consorzio agrigentino per la legalità e lo sviluppo’. È Maria Grazia Brandara, attuale sindaco di Naro (Agrigento) ed ex commissaria dell’Irsap, la piccola cassaforte della Regione Siciliana. Ma soprattutto attuale presidente del’Industria Acque Siracusane (Ias) società partecipata dell’Irsap, enclave del polo petrolchimico di Priolo. Per i giudici rientra tra i ‘fedelissimi’ dell’imprenditore condannato a 14 anni di carcere, tanto che per il presidente dell’Antimafia siciliana Claudio Fava ha presentato un’interpellanza con risposta scritta al governo regionale per chiederne la rimozione. “La permanenza di Maria Grazia Brandara alla Presidenza della società Ias – ha scritto – è un fatto politicamente inaccettabile, visto il suo pesante coinvolgimento nell’indagine sul ‘Sistema Montante”. Il nome dellla Brandara emerge anche da un’informativa sui favoreggiatori del latitante originario di Castelvetrano.

L’episodio riscontrato dai pm che danno la caccia a Messina Denaro, risale al 2014, quando pm e parlamentari Antimafia indagavano sui rapporti tra alcuni appartenenti alle logge massoniche e la criminalità organizzata. A parlare del tema era l’ex collaboratore di giustizia Giuseppe Tuzzolino, poi finito fuori dal programma di protezione: è stato infatti arrestato e condannato per calunnia. All’epoca però – fine 2013 – dopo numerosi interrogatori con i magistrati di Agrigento e Palermo, aveva ottenuto la protezione giudiziaria anche “perchè inserito in una loggia massonica segreta che gli ha consentito di godere della fiducia e dell’appoggio di esponenti di Cosa Nostra”, scrisse l’allora procuratore Francesco Messineo. Così interrogato dall’aggiunto Maria Teresa Principato aveva iniziato a ricostruire il ruolo di massoni “deviati”.

“Si riuniscono due volte l’anno – disse Tuzzolino al pm Principato – e la prossima sarà per l’Agape bianca, un momento rituale molto sentito, che dovrebbe svolgersi il 19 dicembre 2014 all’hotel San Paolo di Palermo”. E in effetti quella sera gli investigatori trovarono il gotha della massoneria siciliana, radunato nella struttura alberghiera sequestrata negli anni Novanta ai fratelli Graviano, in cui si svolgono tutte le cerimonie simbolo dell’Agenzia dei Beni Confiscati. Per l’occasione nella zona di Brancaccio arrivarono da tutte le province, anche a bordo dei pullman parcheggiati a fianco alle auto di grossa cilindrata. A fare da cerimoniere, un professionista di Castelvetrano che nell’aprile dello scorso anno è finito in manette nell’ambito dell’indagine Artemisia, su una loggia coperta operativa nella città d’origine del capomafia. E tra le facce immortalate dagli inquirenti e finite nell’informativa Antimafia, c’era anche Maria Grazia Brandara, che all’epoca non era ancora tra le persone indagate dai pm di Caltanissetta nell’inchiesta su Montante.

“Vale la pena di chiedersi, una volta di più, che ruolo abbia giocato e continui a giocare la massoneria negli assetti di potere deviato in Sicilia”, commenta Claudio Fava che da presidente dell’Antimafia siciliana ha condotto un’indagine sul sistema Montante. Fatti per cui la Brandara è indagata dal maggio 2018 (assieme all’ex presidente della Regione, Rosario Crocetta e ad altri dirigenti regionali) per ‘finanziamento illecito ai partiti”. Recentemente inoltre è stata rinviata a giudizio dal gip di Barcellona Pozzo di Gotto per inquinamento ambientale riferito all’epoca (2015-2017) in cui gestiva l’Irsap. “In questi anni è emerso in modo evidente che la Brandara – si legge nell’interpellanza di Fava – è stata il braccio operativo di Montante in un settore delicatissimo come quello della depurazione delle acque”. La sua nomina risale novembre 2016 e nonostante sia scaduta lo scorso 31 dicembre 2019, resterà operativa almeno fino a quest’estate.

L’ente è controllato al 65% dal consorzio Asi di Siracusa e l’Irsap ha il potere di nominare tre consiglieri d’amministrazione su cinque. “Molti di loro non sanno che cos’è l’Ias e di come si ribaltano i costi di gestione siti privati, perché’ su Ias non c’è nemmeno la giurisdizione della Corte dei Conti, perchè un danno erariale non sarebbe manco ipotizzabile”, diceva intercettata Maria Rosaria Battiato, ex presidente dell’ente. Ma soprattutto moglie di Giuseppe D’Agata, ex capo della Dia di Palermo, all’epoca applicato ai servizi segreti dell’Aisi, adesso sotto processo per aver rivelato notizie riservate proprio all’ex presidente di Confindustria Sicilia. “Fu Montante a segnalarmi il suo nome”, raccontò Alfonso Cicero, presidente di Irsap fino al settembre 2015, quando venne indotto alle dimissioni per le sue accuse contro l’imprenditore nisseno.

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Sicilia, bufera sul nuovo assessore della Lega: “Sono stato iscritto alla massoneria”.

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Il primo assessore della Lega in Sicilia è stato iscritto alla massoneria. Dopo giorni di voci è lo stesso Alberto Samonà ad ammetterlo, durante due interviste rilasciate al quotidiano La Sicilia e all’edizione locale di Repubblica. “Sì, sono stato iscritto alla massoneria. Ma adesso non lo sono più da tempo“, dice il nuovo assessore ai Beni culturali dell’isola. Più volte incalzato sul punto, nei giorni scorsi il leghista aveva escluso di essere un massone. Adesso, però, il nuovo assessore di Nello Musumeci ha confermato di aver fatto parte del Grande Oriente d’Italia. “Il mio – prosegue Samonà – era un interesse puramente culturale e legato agli studi sulla metafisica e la spiritualità che coltivo da sempre e non hanno niente a che vedere con la politica. Non ne faccio più parte da molto prima di entrare nella Lega. È una storia chiusa da tempo. Per questo confermo che non sono iscritto ad alcuna loggia e ad alcuna massoneria“. Dal Goi fanno sapere che lo considerano “in sonno” e per loro non “deve quindi dichiarare più nulla”

Su Samonà, però, si è scatenata la bufera. Ad attaccarlo, ieri, è stato tra gli altri il Presidente della Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana, Claudio Fava, che gli ha chiesto esplicitamente, di dire pubblicamente se è iscritto a una loggia massonica, come prevede il regolamento della Regione per tutti i deputati regionali e assessori, anche se non eletti. E alla fine Samonà ha ammesso: in passato ha fatto parte del Goi. Il neo assessore è finito tra le polemiche anche per alcuni post su facebook (uno dei suoi profili è stato cancellato dopo la nomina, pare su invito dello stesso Musumeci). “Buon viaggio comandante“, ha scritto Samonà nel giorno della morte di Stefano Delle Chiaie. Sui social il neo assessore ha dimostrato anche di non apprezzare Sergio Mattarella, quando il capo dello Stato ha definito un valore l’antifascismo.

Giornalista, appassionato di filosofia orientale, componente del cda della Fondazione Piccolo di Calanovella, Samonà condivide con Musumeci le origini politiche: è cresciuto, infatti, nel Fronte della Gioventù. Poi si è avvicinato ai grillini, candidandosi alle politiche del 2018 e ottenendo un posto blindato in lista al Senato. Lista dalla quale Samonà fu escluso alla vigilia, pare, per la sua eccessiva vicinanza allo stesso Musumeci. Dopo l’esclusione Samonà fece causa a Luigi Di Maio, lamentando un presunto danno d’immagine. Quindi si avvicinò alla Lega, senza perdere di vista i suoi riferimenti a destra. La massoneria, invece, a quanto pare è solo un ricordo.

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‘Ndrangheta, ex senatore di Forza Italia Pittelli a processo con rito immediato: è accusato di concorso esterno con le cosche

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L’avvocato Giancarlo Pittelli sarà processato con il rito immediato. Lo ha stabilito il giudice per l’udienza preliminare di Catanzaro che ha accolto la richiesta avanzata dai difensori dell’indagato coinvolto nella maxi-inchiesta Rinascita-Scott con la quale la Direzione distrettuale antimafia ha stroncato le cosche del Vibonese colpendo i colletti bianchi al servizio della famiglia mafiosa dei Mancuso.

Il processo per Pittelli e per altri tre imputati – Mario Lo Riggio, Salvatore Rizzo e Giulio Calabretta – inizierà il prossimo 9 novembre davanti al Tribunale collegiale di Vibo Valentia. L’ex senatore di Forza Italia è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Per gli investigatori, coordinati dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e dai suoi pm della Dda, Pittelli era il trait d’union tra la ‘ndrangheta, la massoneria e la politica. I magistrati non hanno dubbi quando lo definiscono “l’affarista massone dei boss della ‘ndrangheta calabrese” che con lui è riuscita a relazionarsi “con i circuiti bancari, con le società straniere, con le università e con le istituzioni tutte”.

Stando all’impianto accusatorio, infatti, Pittelli sarebbe stato “la cerniera tra i due mondi” in una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere”. In sostanza, il suo posto era “in quella particolare frangia di collegamento con la società civile, rappresentata dal limbo delle logge coperte”. I boss lo nominavano loro avvocato “in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di ‘amicizia’ con magistrati”.

Da settimane, il giornale Il Riformista diretto da Piero Sansonetti è intervenuto in difesa di Pittelli parlando di reato “fantasioso che non esiste” accusando la Procura di Catanzaro di non averlo interrogato. Gli fa eco anche Vittorio Sgarbi che, dopo aver visitato in carcere Pittelli, si è schierato con l’ex parlamentare di Forza Italia arrivando a presentare addirittura un esposto al Csm contro la Procura di Catanzaro: “La carcerazione di Pittelli – dice Sgarbi – viola la Costituzione e lo stato di diritto perché viene tenuto in carcere senza che sia stato mai interrogato e senza che sia stato celebrato un processo. Nei suoi confronti accuse fumose, frutto di ipotesi senza prove, in spregio a ogni principio di civiltà giuridica”.

L’arresto di Pittelli, chiesto dalla Dda, in realtà è stato avallato prima dal gip, poi dal Riesame e infine dalla Cassazione che, pur annullando alcune aggravanti, ha confermato la misura cautelare nei suoi confronti. Come d’altronde ha fatto il gip che, più volte, ha rigettato le istanze di scarcerazione. Per quanto riguarda il diritto di Pittelli a essere sentito, inoltre, pure in questo caso la versione del Riformista e di Sgarbi è parziale: dopo l’avviso di chiusura indagini notificato dalla procura, infatti, l’ex senatore ha chiesto un interrogatorio e, come prevede la legge, essendo lui detenuto a Nuoro, nel carcere di Badu e Carros, la Dda ha disposto di sentirlo per rogatoria.

Quando però si è trovato davanti al magistrato sardo, incaricato di sentirlo dai colleghi di Catanzaro, Pittelli si è rifiutato di farsi interrogare ed è ritornato in cella senza rendere alcuna dichiarazione. Lo aveva fatto anche prima, qualche giorno dopo l’arresto del 19 dicembre scorso, quando davanti al sostituto procuratore Annamaria Frustaci (uno dei pm titolare dell’inchiesta) e dal gip che lo ha arrestato, si è avvalso della facoltà di non rispondere.

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Massoneria, a Trapani qualcuno ricorda ancora la legge Anselmi

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Logge occulte. Legge Anselmi. Sembrano faccende di un altro mondo invece riguardano l’Italia di oggi. Lo raccontano tante cronache locali, come quella di Castelvetrano, cittadina del trapanese ben nota per gli ulivi e per i templi, perché lì venne sceneggiata molti anni fa l’uccisione del bandito Salvatore Giuliano, per il suo bassissimo tasso di alfabetizzazione e perché quella provincia coccola da tempo immemorabile il boss dei boss, Matteo Messina Denaro.

La locale procura ha chiesto oggi il rinvio a giudizio per diversi reati a carico di 19 persone, tra loro c’è anche l’ex deputato regionale (prima nell’Mpa e poi confluito nel Nuovo centrodestra) Giovanni Lo Sciuto (oggi agli arresti domiciliari), accusato di essere stato “socio promotore occulto della loggia” che tentava di alterare la vita politica della cittadina, pilotando l’assegnazione delle “pensioni false” erogate dall’Inps.

I 19 indagati – accusati a vario titolo di corruzione, induzione indebita, concussione, traffico di influenza illecita, truffa, falso, rivelazione segreti di ufficio e violazione, appunto, della Legge Anselmi – dovranno comparire il prossimo 20 novembre davanti al gup Samuele Corso che valuterà la proposta dei pm.

Tutto è nato dall’inchiesta Artemisia dei pm di Trapani (procuratore aggiunto Maurizio Agnello, sostituti procuratori Francesca Urbani, Sara Morri e Andrea Tarondo) che il 21 marzo dello scorso anno portò all’arresto di ventisette persone, tra cui l’ex sindaco della cittadina, Felice Errante, e l’allora candidato alla carica di primo cittadino. Nel blitz furono coinvolti anche i poliziotti Salvatore Passanante, all’epoca in servizio al commissariato di Castelvetrano, Salvatore Giacobbe, impiegato all’interno della questura di Palermo e Salvatore Virgilio, applicato alla Direzione Investigativa Antimafia (Dia) di Trapani – diciamo pure un piccolo campione di locale classe dirigente.

Allora, la faccenda è questa: Lo Sciuto e i suoi sodali avrebbero messo su una loggia massonica occulta (fuori del tradizionale circuito delle logge riconosciute) per gestire il controllo delle assunzioni nell’ente di formazione Anfe di Paolo Genco e delle assegnazioni di pensioni d’invalidità dell’Inps, attraverso Rosario Orlando, già responsabile del centro medico legale dell’ente.

Nella corposa (1236 pagine) ordinanza applicativa di misure cautelari dello scorso marzo firmata dal gip Emanuele Cersosimo si legge che “l’elemento che caratterizza l’associazione prevista dalla legge Anselmi da quella generica è costituito dalla finalità̀ di interferenza sull’esercizio delle funzioni pubbliche elencate dalla legge stessa. Attività di interferenza che non riveste in se stessa natura delittuosa (si pensi all’attività delle lobbies), acquistando natura illecita solo in virtù del carattere di segretezza proprio dell’associazione; segretezza che integra l’ulteriore elemento specializzante di tale fattispecie, non presente in quella dell’art. 416 c.p.”.

Uscendo dal giuridichese più o meno è così: l’articolo 416 del codice penale è quello relativo all’associazione a delinquere (il 416/bis riguarda l’associazione mafiosa) e tutela l’ordine pubblico mentre la legge Anselmi è finalizzata a proteggere la libertà e il pluralismo associativo, il corretto, libero e trasparente funzionamento di organi decisivi per la collettività nazionale. I magistrati trapanesi ci spiegano che l’associazione segreta si alimenta e si rafforza. Poi è interessante la riflessione sul carattere massonico dell’associazione.

Da presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi chiese di chiamare la legge non solo Anselmi ma Spadolini-Anselmi, o anche solo Spadolini: comunque la si voglia chiamare la sua attualità è stringente così come dovrebbe esserlo il dibattito sul suo rafforzamento.

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Massoneria, la legge Anselmi non è un vecchio arnese. L’inchiesta di Paola lo conferma

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Il protagonismo delle logge massoniche in alcune zone del nostro territorio nazionale è molto forte. Così mi disse tempo fanno un massone pentito Cosimo Virgilio che ha consentito di scoperchiare diverse cupole del malaffare. In una intervista comparsa su Il Fatto Quotidiano, Virgilio raccontò che le logge locali svolgono un fondamentale ruolo di ricomposizione di interessi economici e sociali.

In effetti, sono diverse le inchieste che puntano il dito su presunte logge massoniche: proprio ieri, mercoledì, la Procura di Paola, in provincia di Cosenza, ha messo sotto inchiesta diciotto persone tra Calabria e Basilicata accusandole di aver condizionato gli appalti nella zona dell’alto Tirreno calabrese. I reati contestati sono truffa, turbata libertà degli incanti, corruzione e… violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete e massoniche.

L’indagine, coordinata dal procuratore di Paola, Pierpaolo Bruni, ha visto l’attuazione di numerose perquisizioni durante le quali sembra siano state trovate diversi elementi utili agli inquirenti. Vedremo come proseguirà la faccenda. Intanto, è importante che ci sia uno strumento di legge che, per quanto poco severo e arrugginito, possa essere usato nei tribunali di fronte a gruppi che fanno della segretezza e del vincolo massonico prima ancora che una caratteristica associativa una barriera di opacità verso il resto del mondo e della legalità.

Paradossalmente quella legge non servì a niente contro gli appartenenti alla P2 nonostante venne approvato proprio dopo la scoperta della loggia di Licio Gelli nella quale erano confluiti i vertici dello Stato e gli alti ranghi della Pubblica Amministrazione, i quali se la cavarono in un modo o nell’altro perché uno Stato compromesso non li inchiodò alla loro infedeltà.

Nella scorsa legislatura Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia, chiese una riforma della Legge Anselmi per renderla più stringente. Aveva ragione. E’ necessaria che la segretezza sia bandita dalla vita pubblica e che alle cariche istituzionali di ogni livello sia proibito di iscriversi ad associazioni segrete, con o senza grembiulino e compasso.

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‘Ndrangheta, stragi e neonazi: la parabola del boss Nucera per ‘sfornare soldati pronti a tutto’

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“Lavoravo per lo Stato e anche per la ‘ndrangheta, così si contenevano tante cose”. Sono trascorsi due anni da quando l’ex boss mafioso Pasquale Nucera, detto “Leone”, ha testimoniato nel processo “’ndrangheta stragista” che vede imputati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. In quell’occasione ha voluto descrivere ai giudici un’alleanza tra mafie, logge massoniche e servizi segreti che, nei primi anni ’90, avrebbe gestito la transizione di un gruppo di potere politico-economico-criminale verso nuovi equilibri e nuovi punti di riferimento.

Dal tramonto della Democrazia Cristiana al sorgere di nuovi poteri politici: serviva “un partito degli amici” avrebbe detto il boss calabrese Francesco Nirta il 28 settembre 1991, durante un summit internazionale al santuario di Polsi, in Aspromonte; “un partito degli uomini”. Al tribunale di Reggio Calabria ha raccontato anche di una precedente riunione, questa volta a Villa San Giovanni, in cui la cupola massomafiosa avrebbe deciso l’eliminazione di Antonino Scopelliti, magistrato calabrese assassinato nell’estate 1991 mentre lavora al rigetto dei ricorsi dei boss mafiosi condannati nel maxiprocesso di Palermo.

Dopo la clamorosa sentenza del 1988, per un po’ Salvatore Riina e i suoi avvocati ripongono una certa fiducia in quella Cassazione che, in precedenza, aveva sempre tolto le castagne dal fuoco ai boss. Le cose, come è noto, vanno diversamente. Giovanni Falcone, giunto nel frattempo al Ministero di Grazia e Giustizia, introduce nel sistema il principio della rotazione nell’assegnazione dei procedimenti in Cassazione: tocca al magistrato Arnaldo Valente, detto “Papillon”, presiedere la Corte. Le condanne vengono confermate, interrompendo la pessima consuetudine di smaltire sentenze nell’inceneritore di Corrado Carnevale, noto giudice “ammazzasentenze” che in una intercettazione del 1993 (un anno e mezzo dopo la strage di Capaci) – al telefono con un certo Nicola – manifesterà senza ritegno il suo risentimento per “quel cretino di Falcone… perché i morti li rispetto… ma certi morti no”.

Mezzo mafioso, mezzo nazista. Il profilo criminale di Pasquale Nucera fa drizzare le orecchie a chi, in questi giorni, sta leggendo il nuovo libro di Giovanni Vignali, pubblicato da Paperfirst e dedicato all’emiliano Paolo Bellini, “uomo nero” accusato della strage fascista (e piduista, secondo la Procura generale di Bologna) del 2 agosto 1980. Nell’udienza del 1° marzo 2019 Nucera aveva chiamato in causa Licio Gelli negli affari delle cosche e del cosiddetto “quarto livello”:

“In ogni loggia della massoneria c’era un componente della ‘ndrangheta, un uomo dei clan. E lo stesso succedeva nei Servizi. Era così che si controllavano i voti, i lavori pubblici, il riciclaggio, gli appalti, i posti di lavoro, i grandi affari e il narcotraffico. Questo sistema era talmente blindato che anche Gelli incorporava nella P2 un ‘santista’ di ogni ‘locale’. A questo livello c’erano contatti con i Servizi. Conoscevo diversi componenti di quel mondo e vicini a Gelli, come Francesco Pazienza”. Otto mesi dopo questa deposizione, il 28 novembre 2019 Nucera verrà arrestato vicino a Imperia.

L’ex collaboratore di giustizia calabrese si beccherà tre anni di carcere per associazione eversiva e istigazione a delinquere. “Sfornare soldati pronti a tutto”: la Procura di Caltanissetta scoperchia una rete neonazista attiva in tutta Italia (Siracusa, Padova, Milano, Verona, Torino, Genova…), che può contare su forti legami con la galassia neonazista internazionale: dai britannici Aryan White Machine ai portoghesi di Nova Ordem Social. Gente con le idee chiare. “Lanciamo una molotov contro l’Anpi. La facciamo tirare da un marocchino, così depistiamo”.

Non mancano le quote rosa tra i 19 membri del “Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori” arrestati dalla Digos di Enna. Tra gli arrestati c’è una giovane mamma single di Pozzo d’Adda, che pochi mesi prima era stata incoronata “Miss Hitler 2019” dagli utenti di Vk, il social più diffuso in Russia.

Qualche mese prima, davanti ai giudici di Reggio Calabria, Nucera aveva pronunciato un altro nome di peso: Amedeo Matacena. Classe 1963, soprannominato “scucculato” per la testa pelata, l’ex deputato berlusconiano (eletto nel 1994, in quota Udc, proprio nel collegio di Villa San Giovanni) è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Fuggito a Dubai nel 2013, da otto anni conduce una dorata latitanza, spacciandosi per “imprenditore”: l’Italia è in attesa di un’estradizione che, seppure sollecitata, gli Emirati Arabi Uniti non hanno ancora concesso.

Nei giorni del Festival di Sanremo, una curiosa coincidenza spazio-temporale ci riporta infine sulla riviera ligure di ponente. Un anno fa, l’attuale sindaco di Imperia Claudio Scajola è stato condannato dal Tribunale di Reggio Calabria per aver favorito la fuga di Matacena a Dubai. Latitanza che i giudici collegano a quella, molto più breve, di Marcello Dell’Utri.

Nella sentenza di primo grado “appare evidente che anche il piano di spostamento di Matacena da Dubai e in Libano sia maturato nell’ambito di questi rapporti vischiosi tra personaggi appartenenti al mondo della politica [i democristiani dorotei Emo Danesi e Giuseppe Pizza], del commercio [l’ex presidente di Confcommercio Sergio Billè], della finanza, dell’imprenditoria [l’ex presidente di Confindustria Calabria Vincenzo Speziali, senatore Pdl morto nel 2016], della massoneria (Danesi risulta essere stato affiliato alla loggia P2), che spesso trovano convergenza di interessi nell’aiuto di personaggi che pure sono stati giudicati e condannati per gravi reati di mafia, in esito a processi svolti con tutte le garanzie riservate agli imputati in uno Stato democratico”.

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Licio Gelli, l’aspirante burattinaio salito a cavallo di una tigre

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“Sono salito a cavallo di una tigre, non pensavo mai che corresse così forte”. C’è un uomo a Roma, all’hotel Excelsior, suo quartiere generale, che medita di lasciare la capitale e di rifugiarsi all’estero. È il febbraio 1981, sei mesi dopo la strage di Bologna e quell’uomo si chiama Licio Gelli. È un personaggio divenuto potente che si è lasciato alle spalle le umili origini. Ma un potente da retropalco, nonostante da qualche anno sia nel mirino dei settimanali Panorama e L’Espresso.

Il 5 ottobre 1980, però, esce allo scoperto e concede un’intervista al più importante quotidiano nazionale, Il Corriere della Sera, rispondendo alle domande di un giornalista ai tempi poco più che quarantenne, Maurizio Costanzo. Nessuno – o quasi – sa che il giornale, ormai, è nelle mani di Gelli e che Costanzo è iscritto alla sua loggia, la P2. Righe fittissime, quelle dell’intervista, al termine delle quali, dopo aver disquisito di democrazia, fagioli e pena di morte, Gelli risponde a una domanda: da bambino cosa avrebbe voluto fare da grande? “Il burattinaio”.

Licio Gelli nasce a Pistoia il 21 aprile 1919 da una famiglia di modesta estrazione e fin da giovanissimo punta a una vita più agiata e avventurosa. Così, nel 1936, va a combattere in Spagna, al fianco delle truppe schierate con il dittatore Francisco Franco. Negli anni della seconda guerra mondiale veste una divisa fascista e poi, dopo l’8 settembre 1943, collabora con i nazisti. Ma il giovane Gelli è uno sveglio e capisce che il collasso del Terzo Reich è inevitabile. Così contatta i partigiani e in qualche caso si attiva per evitare loro arresti e rappresaglie. Gesti che gli valgono lettere a suo favore quando deve gestire le accuse formulate a suo carico.

Si fa notare in quel periodo dallo statunitense James Jesus Angleton, capo delle operazioni in Italia dell’Oss, l’antesignana della Cia, e inizia a intessere relazioni utili per il suo futuro. Ma il dopoguerra è duro, Gelli si barcamena tra mille lavori: tabaccaio ambulante, libraio, aspirante imprenditore. Sa che l’immagine è importante, per cui è sempre ben vestito, e sembra disporre di somme di denaro superiori alle sue possibilità. Denaro la cui origine resta senza spiegazione. Ma è senza passaporto e fino al 1956 resta un osservato speciale da parte di forze di polizia e servizi segreti.

La politica, lo sa, è la chiave per svoltare e allora, scartati gli ambienti del Movimento Sociale a lui più congeniali, vira sulla Democrazia Cristiana. Preferisce gli ambienti riconducibili a Giulio Andreotti e viene a contatto con Attilio Piccioni – in seguito travolto dallo scandalo, uno dei primi nella giovane Repubblica, innescato dalla morte della giovane Wilma Montesi – e con Romolo Diecidue, di cui diventa portaborse. Gli anni Cinquanta sono quelli dell’ascesa e una commessa di 40 mila materassi per le forze armate della Nato gli vale il successo. E il denaro. Nel 1970 si è già trasferito in una sontuosa villa alle porte di Arezzo a cui dà il nome della moglie, Wanda. Qui, al pari dell’Excelsior di Roma, confluiscono alcuni degli altolocati contatti con cui Gelli lega. Tra questi il generale dei carabinieri Giovanni Battista Palumbo, del generale del Sifar Giovanni Allavena e il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.

Nel 1969, Gelli conosce Alexander Haig, assistente di Henry Kissinger al consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, divenuto poi segretario di Stato durante la presidenza di Ronald Reagan con compiti anti-insurrezionali in America Latina. Inoltre a Washington ha anche un altro interlocutore di rango, il deputato repubblicano Philip Guarino legato a Michele Sindona, nome illustre della P2.

L’ingresso in massoneria risale al 1962 con l’affiliazione alla loggia Romagnosi di Roma e con una successiva carriera massonica dalle caratteristiche del tutto irrituali. La loggia che gli viene affidata, la Propaganda 2, finisce per diventare uno Stato nello Stato radunando al suo interno 52 ufficiali dei carabinieri, 50 dell’esercito, 37 della guardia di finanza, 29 della marina, 9 dell’aeronautica e 6 della pubblica sicurezza.

La rovina arriva esattamente quarant’anni fa, il 17 marzo 1981, con la scoperta delle liste della P2. Negli anni successivi Gelli – che fino ad allora era passato indenne attraverso tentati golpe, dossieraggi, omicidi eccellenti, relazioni con la mafia e con l’eversione di destra – trascorre lunghi periodi di latitanza all’estero. Condannato per i depistaggi alle indagini sulla strage di Bologna e per il crac del Banco Ambrosiano, in Italia resta in carcere solo un paio di mesi. Poi, per motivi di salute, passa ai domiciliari a Villa Wanda non smettendo mai di coltivare relazioni importanti. E negli ultimi anni della sua vita rivela che, quando si scoprì l’esistenza della Loggia P2, “si era a quattro mesi dal completamento del golpe che si andava preparando”. Un golpe soft, che avrebbe dovuto essere compiuto un anno dopo la strage di Bologna, senza militari in stile colonnelli greci, perché “in quel momento avevamo in mano tutto”.

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P2, quarant’anni fa la scoperta degli iscritti alla loggia di Licio Gelli. Ecco perché gli elenchi con 962 nomi non erano completi

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Erano meno di mille, 962 per l’esattezza. Niente camicie rosse, ma cappucci neri, grembiulini e compassi. E poi il potere più forte di tutti: quello del ricatto fondato sulle cose taciute. Se è vero che in Italia non esistono misteri di Stato ma solo segreti di Stato – perché qualcuno che sa alla fine c’è sempre – allora la P2 è il feticcio della storia della Repubblica. L’emblema di come in questo Paese le domande importanti non trovano mai risposta: devono rimanere inevase. Quarant’anni dopo la scoperta degli elenchi della P2, un interrogativo tra i tanti rimane ancora in sospeso: i nomi ritrovati esattamente quarant’anni fa a Castiglion Fibocchi erano davvero quelli di tutti i componenti della loggia di Licio Gelli? E in caso contrario che fine hanno fatto gli altri nomi, ammesso che ci fossero davvero? E poi: a cosa serviva davvero quella loggia coperta che metteva insieme politici, alti ufficiali delle forze armante e giornalisti? E il capo di tutta quella baracca eversiva era davvero “solo” Gelli, il maestro venerabile con un passato da fascista, l’uomo che per Giulio Andreotti era solo “il direttore della Permaflex di Frosinone“, salvo poi ritrovarselo in Argentina, invitato all’insediamento del presidente Peron? Domande, punti interrogativi su una sigla che ha proiettato le sue ombre su buona parte dei misteri italiani.

Quell’indirizzo della Giole sull’agenda di Sindona – Come tutte le cose che gestiscono il potere vero, l’esistenza della P2 diventa di pubblico dominio lo stesso giorno in cui la comincia il suo declino. È la mattina del 17 marzo del 1981 quando i finanzieri inviati dai giudici di Milano, Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprono gli ormai notissimi elenchi. I magistrati stanno indagando sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della banche di Michele Sindona, che nell’estate del 1979 era fuggito da New York e poi aveva fatto finta di essere rapito da inesistenti terroristi di sinistra. Invece si è rifugiato in Sicilia, protetto dai boss di Cosa nostra: per avvalorare la tesi del sequestro si fa sparare a una gamba da un medico massone, Joseph Miceli Crimi, uno che ha contatti frequenti con Gelli. Per questo motivo Turone e Colombo inviano i finanzieri a perquisire quattro indirizzi di pertinenza del maestro Venerabile. Nei primi tre recapiti, compresa la famosa villa Wanda, non trovano nulla. Il quarto indirizzo è nuovo, nel senso che era annotato su un’agenda sequestrata negli Stati Uniti a Sindona e inviata poco tempo prima ai giudici di Milano: segnato sotto il nome di Gelli c’è il recapito della sede della Giovane Lebole (Giole), nota azienda d’abbigliamento di Castiglion Fibocchi. È lì che i finanzieri del maresciallo Francesco Carluccio trovano una cassaforte: la aprono e dentro c’è una ordinatissima lista di 962 nomi. Sono annotati in modo puntiglioso con tanto di titolo, città, numero di fascicolo.

Le liste della P2 – In quelle liste ci sono i nomi di 208 tra militari e appartenenti alle forze dell’ordine (43 generali e l’intero vertice dei servizi segreti), 11 questori, 5 prefetti, 44 parlamentari, due ministri, banchieri (lo stesso Sindona e Roberto Calvi), imprenditori, professionisti, magistrati e giornalisti. Sono gli appartenenti alla loggia Propaganda 2: una lista che da lì a pochi giorni fa esplodere un caso politico giudiziario senza precedenti nella storia d’Italia. Un buco nero capace di ingoiare stragi e delitti mai risolti. Erano iscritti alla P2 molti dei componenti del comitato di esperti nominato dall’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, durante il sequestro di Aldo Moro. Erano della P2 i vertici degli organi investigativi attivi a Palermo nel 1980, l’anno dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Era stata la P2 di Gelli, almeno secondo gli ultimi elementi raccolti dai magistrati di Bologna, a finanziare la strage della stazione del 2 agosto precedente. Tutte queste cose, però, in quei giorni di marzo del 1981 non si potevano sapere. Come non si poteva sapere che tredici anni dopo uno degli iscritti alla P2, il “dott. Silvio Berlusconi di Milano”, avrebbe vinto le elezioni politiche. Quello che Turone e Colombo scoprono subito, invece, è che tra quei nomi c’è pure il capo di gabinetto dell’allora presidente del consiglio, Arnaldo Forlani. È lui che li riceve quando i due si recano a Palazzo Chigi per consegnare le copie degli elenchi della loggia. “Dopo i sequestri passammo una notte in bianco per fotocopiare e autenticare per tre volte ogni pagina dei documenti sequestrati a Gelli”, racconta oggi Turone. Un’operazione che non consentirà a nessuno di smentire la genuinità di quei documenti. Come sempre capita per le vicende italiane, infatti, il moto di sdegno esploso per lo scandalo P2 finisce molto presto. Si normalizza insieme alla richiesta di legalità e giustizia. Dopo le dimissioni di Forlani, sostituito da Giovanni Spadolini, primo premier laico della storia repubblicana, l’inchiesta giudiziaria viene spostata da Milano al porto delle nebbie di Roma, e lì finisce come dove finire: inabissata. Gelli finirà implicato in varie inchieste, fuggirà all’estero, ma per i fatti della P2 se la caverà con una sentenza leggerissima emessa solo molti anni dopo.

La commissione Anselmi e l’ipotesi delle liste incomplete – Nel frattempo in tanti cercano di mettere in dubbio la veridicità degli elenchi sequestrati nella sede della Giole. Se non ci riescono è merito anche del lavoro svolto dalla commissione parlamentare d’inchiesta guidata dalla deputata Dc Tina Anselmi. Per tre anni si ricostruiscono rapporti, contatti, legami, vengono analizzati tutti i movimenti del conto intestato a Gelli alla Banca Popolare dell’Etruria (si chiamava conto “Primavera“) e alla fine si può scrivere che quelle liste sono da considerare “autentiche: in quanto documento rappresentativo dell’organizzazione massonica denominata Loggia P2 considerata nel suo aspetto soggettivo” e “attendibili in quanto sotto il profilo dei contenuti, è dato rinvenire numerosi e concordanti riscontri relativi ai dati contenuti nel reperto”. Ma non solo. La commissione d’inchiesta, infatti, ipotizza come quegli elenchi non siano completi. “Possiamo in primo luogo sottolineare che esistono non pochi elementi o indizi di prova che militano a favore della ipotesi di un’incompletezza delle liste che, pertanto, non comprenderebbero nomi di altre persone, oltre quelle elencate, pur ugualmente affiliate alla Loggia”, si legge nella relazione finale. Quali sono gli elementi ai quali si riferiva la commissione? Per esempio la lettera inviata da Gelli a un altro massone in cui il Venerabile scrive: “L’esame dello schedario centrale non è ancora terminato e, inoltre, se non trovi alcuni degli elementi da te segnalati, è per motivi che ti spiegherò al nostro prossimo incontro durante il quale ti indicherò anche le ragioni per cui ti sono stati affidati alcuni elementi che non erano stati segnalati da te”. E ancora: “Mi chiedi se abbiamo molti candidati: ti rispondo che il proselitismo che abbiamo avuto in questi ultimi tre anni è stato veramente massiccio: nel 1979 siamo arrivati ad oltre quaranta iniziazioni al mese”. C’è poi l’intervista all‘Espresso, in cui già il 10 luglio 1976 – cinque anni prima del sequestro – Gelli sosteneva che “l’organico della Loggia ammontava all’epoca a ben duemilaquattrocento unità“. Il maestro venerabile sosterrà di aver querelato il settimanale per quell’intervista, ma la commissione non troverà traccia di quella denuncia.

Il massone: “Quella lista non è completa, io queste cose le conosco” – A spingere i parlamentari guidati da Anselmi sulla pista degli elenchi incompleti c’è anche un testimone di eccezione: si chiama Vincenzo Valenza, è un dignitario massonico di una delle discendenze di piazza del Gesù, iscritto alla P2, e si presenta in commissione per rispondere alle domande dei parlamentari. La prima è questa: “A suo avviso quella lista lì, oltre a essere una lista veritiera, è una lista completa? Ci rifletta molto proprio per la sua esperienza”. Risposta: “Non ho bisogno di rifletterci, le dico di no, per me non è completa. Siccome io sono stato dirigente di una obbedienza queste cose le conosco. C’è questa diversità di numero“. Valenza si riferisce alla grossa discrepanza che c’è nella ordine consequenziale dei numeri delle varie tessere. “Ogni tessera c’è un numero. Gli altri dove sono? Facciamo una percentuale, il dieci, il venti percento (di numeri appartiene) a morti e messi in sonno? Ma non corrisponde”. È vero: c’è un buco nella consecutio numerica delle tessere. E poi: come mai nessuna tessera ha un numero inferiore al 1.600? “Non lo può dire nessuno, chissà dove saranno andati a finire quelli dal 1.599 in giù”. I commissari domandano: era possibile che Gelli inserisse nell’elenco nomi di persone a loro insaputa? “No. Questo lo escludo perché non avrebbe senso”, risponde Valenza, che si dice sicuro: “Sono convinto fossero molti di più”. E quindi che senso ha quella lista di 962 nomi? “Io – dice il massone – suppongo che siano stati quelli messi a disposizione nel caso in cui ci fosse una perquisizione. Era assurdo che questa roba fosse stata tenuta lì a Castiglion Fibocchi“.

Perché si chiama P2? La storia della P1 –Per tutti questi motivi la commissione scrive che “non è azzardato ritenere che la forza e la capacità operativa della loggia, acquisite mediante la penetrazione nei più importanti settori delle istituzioni dello Stato e nei centri economici, fossero maggiori di quanto documentano gli elenchi, i quali sarebbero quindi approssimativi per difetto rispetto all’effettiva consistenza della Loggia P2 anche per queste più generali considerazioni di merito, che si aggiungono ai riscontri obiettivi citati”. Ma se gli elenchi erano “approssimativi per difetto” vuol dire che ne esistevano altri? E c’entra qualcosa la P1, della cui esistenza parla per la prima volta lo stesso Valenza in commissione? Si trattava di una loggia dall’ex gran maestro Lino Salvini, l’uomo che nel 1971 nomina Gelli “segretario organizzativo della Loggia P2”. Nelle intenzioni di Salvini la P1 doveva essere ancora più segreta ed elitaria della P2: doveva avere pochi componenti e tutti di altissimo livello. Proposito fallito, almeno secondo Valenza. Il motivo? La loggia di Gelli aveva ormai acquisito troppa importanza: “Parlando di P2 erano tutti impazziti, erano disposti a farsi operare pur di entrare alla P2. C’era una corsa indescrivibile”.

L’esempio delle 2 piramidi – Per spiegare cosa fosse la P2 e chi potessero essere i piduisti a volto coperto la commissione Anselmi fece un esempio particolarmente efficace: “Possiamo pensare ad una piramide il cui vertice è costituito da Licio Gelli; quando però si voglia a questa piramide dare un significato è giocoforza ammettere l’esistenza sopra di essa, per restare nella metafora, di un’altra piramide che, rovesciata, vede il suo vertice inferiore appunto nella figura di Licio Gelli. Questi è infatti il punto di collegamento tra le forze ed i gruppi che nella piramide superiore identificano le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano pratica attuazione, ed attraverso le quali viene orientata, dando ad essa di volta in volta un segno determinato, la neutralità dello strumento”. E dunque il Venerabile era una sorta di trait d’union tra due sistemi di potere: uno in alto che elaborava ordini, uno in basso che li eseguiva. La P2 era la piramide inferiore. In mezzo c’era Gelli. E sopra?

Il magistrato: “Nel piano di Rinascita volevano fare un club dei migliori” – Sarà per questo motivo che ancora oggi Turone definisce Gelli come un “notaio di un sistema occulto”. Quarant’anni dopo aver scoperto la P2, il giudice non crede all’esistenza di altri elenchi ma ipotizza l’esistenza di esponenti che non figurano in alcuna lista. “Quelle liste sono complete. Però è noto come esistessero pesonaggi di livello superiore, i cosiddetti ‘noti all’orecchio del gran Maestro’, ma non occorreva fossero iscritti da qualche parte”. Turone ricorda che uno degli obiettivi del Piano di Rinascita democratica, cioè il programma di Gelli, puntava – tra le altre cose – “alla costituzione di un club (di natura rotariana per l’etereogenita’ dei componenti) ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori, imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati, nonche’ pochissimi e selezionati uomini politici, che non superi il numero di 30 o 40 unita”. Una sorta di comitato di saggi che “si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano e nei confronti delle forze amiche nazionali e straniere che lo vorranno appoggiare”. Sono quelli i nomi dei piduisti coperti?

L’ex gran maestro: “Nel vero elenco della P2 più di 3mila nomi”- Più di recente Giuliano Di Bernardo, ex gran maestro del Grande Oriente, ha sostenuto davanti alla commissione Antimafia che “quello sequestrato dalla magistratura era solo parziale. Gelli mi offrì l’elenco vero della P2 tramite un suo emissario che commentò: ‘così puoi ricattare tutta l’Italia”. L’ex massone, che si è dimesso nel 1993 subito dopo le stragi, ha sostenuto nel 2017 che “quando furono sequestrati gli elenchi a casa di Gelli, si disse che gli iscritti alla P2, come risultava in quel fascicolo, erano 800-900: io credo ci sia altro elenco di oltre 3mila nomi e su questo ho delle evidenze“. Che evidenze? “Dopo la mia elezione chiede di incontrarmi il segretario personale del gran maestro Battelli. Questo segretario voleva fare una dichiarazione al Gran maestro da firmare. Infatti lo incontro e mi dice che una sera Gelli si presenta nello studio del Gran maestro Battelli con un gran fascicolo e gli dice ‘questo è l’elenco della P2‘. Battelli inizia a sfogliarlo e diventa di tutti i colori. Alla fin fine, Battelli chiude e dice a Gelli: ‘Riprendilo, questo io non l’ho mai visto”. Per questo ho la cognizione che il vero elenco esiste ma non sappiamo dove”. C’erano altri elenchi dunque? Liste di nomi talmente scottanti da essere coperte persino tra quelle già considerate segrete? E se c’erano che fine hanno fatto^ Sulla questione dell’elenco degli iscritti il gran maestro della P2 ha sempre tenuto un atteggiamento ambiguo (come d’altra parte per la maggior parte delle questioni). Non ha mai confermato che quei 962 fossero tutti i massoni iscritti alla P2, e nemmeno che ce ne fossero degli altri. Negli 2010, però, intervistato da La 7 su quelle liste, rispose: “Certe cose conviene dimenticarle, distruggerle, incenerirle. Una volta incenerite non se ne parla più. Incenerire qualcosa è il miglior archivio del mondo”.

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Interessi occulti e incompetenza: due facce della stessa medaglia

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Vi è mai capitato di constatare la totale incompetenza di persone in posizioni apicali? A me è capitato. Molte volte. L’ultimo caso è quello del nuovo membro proposto dalla Lega nel Comitato Tecnico Scientifico per supportare il contrasto alla pandemia, che per fortuna poi si è ritirato. Viene spontaneo chiedersi: ma chi ce li ha messi? Come mai chi raccomanda qualcuno non propone persone competenti? Non è contro logica? No, non lo è.

Chi raccomanda si aspetta gratitudine e la richiede pretendendo in cambio favori non sempre legittimi. Se il miracolato è un totale incapace è conscio di dover ricambiare il favore, soprattutto se la posizione è per nomina e non è a tempo indeterminato. Una persona capace dice no a proposte indecenti e viene percepito come inaffidabile. Meglio un cretino fedele che un competente che ti dice no. Gli yes men sono molto apprezzati dai “capi”. Il cretino in posizione apicale, poi, tenderà a usare lo stesso metro per reclutare nuovo personale, e il livello di competenza decadrà inesorabilmente.

Ci sono organizzazioni più o meno occulte che hanno come fine la promozione degli adepti che, in effetti, giurano di aiutarsi reciprocamente in ogni occasione possibile. Poniamo che in una commissione di concorso ci sia un afferente a queste confraternite, e poniamo che al concorso si presenti un altro afferente. I due sono legati da vincolo di giuramento di aiuto reciproco, e questo inevitabilmente danneggia chi non gode di potenziali favoritismi all’interno della commissione.

La Costituzione, all’Art. 18, dice: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”.

E quindi: ci si può iscrivere a una loggia massonica ma l’adesione non può essere segreta. Il che significa che si deve poter controllare se i membri di una commissione appartengono a qualche associazione, e si deve controllare se i candidati appartengano alla stessa associazione di qualche membro della commissione. L’iscrizione a un partito o a un sindacato non prevede giuramenti di aiuto reciproco, ma spesso comporta simili favoritismi. Certe associazioni li prevedono esplicitamente. Sono state fatte tanti anni fa, per contrastare poteri forti e oppressivi. È normale che, allora, gli adepti decidessero di restare anonimi e, anche, di aiutarsi in caso di necessità.

Il mutuo soccorso è una nobile attività. Però se una loggia massonica diventa segreta, tipo la P2, e ordisce un piano che poi, ovviamente per puro caso, trova riscontro in quello che è realmente avvenuto, allora forse ci dobbiamo preoccupare.

Pare che la malavita organizzata trovi terreno fertile in associazioni segrete di nobilissime origini, e anche in associazioni non segrete, tipo i partiti. Se nelle commissioni che gestiscono gli appalti ci sono iscritti ad associazioni che prevedono giuramenti di mutuo soccorso e loro confratelli hanno presentato progetti per rispondere alla gara di appalto, si prefigura un conflitto di interessi. La soluzione è semplice: deve essere obbligatorio dichiarare le appartenenze a organizzazioni che prevedano vincoli di aiuto reciproco. Nel caso in cui giudicati e giudicandi afferiscano alle stesse associazioni, o si ritira il concorrente o si sostituisce il membro della commissione. Il Movimento 5 Stelle ha richiesto esplicitamente ai suoi candidati di dichiarare di non essere iscritti ad associazioni che potrebbero avere queste controindicazioni, e qualcuno è stato espulso per non averlo dichiarato.

Non riesco a capire come mai l’Art. 18 della Costituzione non venga applicato in modo stringente nella gestione di concorsi e appalti. Ma forse chi dovrebbe applicare queste regole non è a conoscenza dell’esistenza di associazioni segrete. Quando Lilli Gruber chiese a Mario Monti se era massone, il senatore a vita rispose di non sapere bene cosa fosse la massoneria. Il che, necessariamente, prefigura due scenari: o Monti non conosce la storia del nostro Paese, inclusa la storia della P2, oppure ci sta prendendo in giro. In effetti poi ha dichiarato di non essere massone, ma dato che non ha ben chiaro cosa sia la massoneria, è oscuro come possa dichiarare di non appartenervi.

Se ci pensate, la rovina di questo Paese è l’incompetenza e, anche, l’impossibilità di toccare interessi occulti che vengono strenuamente difesi da solidi referenti politici. L’evasione fiscale, per esempio, viene percepita come un nobile gesto, e le tasse sono viste come una prepotenza intollerabile. Poi, se ci sono problemi, si chiede a gran voce che lo Stato intervenga! Senza voler contribuire al suo bilancio. Una banda di furbi (non di intelligenti, si badi bene) incompetenti ha attuato una strategia di occupazione delle stanze del potere, e appare sempre più chiaro che si sia alleata con la malavita organizzata, che ha come obiettivo la spoliazione della cosa pubblica.

Questa “filosofia” di vita trova grande approvazione in una parte consistente dell’elettorato. Non dimentichiamo che Silvio Berlusconi affermò che lo stalliere mafioso Vittorio Mangano fosse un eroe e che la magistratura fosse un cancro per il paese. Stravinse le elezioni, dopo dichiarazioni del genere, se non ricordo male.

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Cecchi Paone a La Confessione (Nove) Di Peter Gomez: “Sono nato massone. Il mio livello? Maestro dell’ultimo grado e architetto del rito simbolico”

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“Io sono nato massone. Sono maestro del terzo e ultimo grado della massoneria azzurra, quindi di più non posso crescere”. Alessandro Cecchi Paone, ospite de La Confessione di Peter Gomez venerdì 16 aprile alle 22.45 su Nove ha spiegato le origini della sua affiliazione al Grande Oriente d’Italia: “La mia famiglia è una famiglia risorgimentale, garibaldina e mazziniana – ha detto – Garibaldi l’ha fondato, nel 1861, il Goi, è stato il primo gran maestro, nessuno lo dice. I miei nonni di conseguenza si trovarono massoni”. Il giornalista ha specificato anche il suo grado: “Sono maestro del terzo e ultimo grado della massoneria azzurra, quindi di più non posso crescere. Vuol dire che sei uno che è in grado di gestire una loggia, una tornata, di istruire gli apprendisti e i compagni d’arte”. Inoltre, ha concluso l’ex conduttore “sono anche architetto del rito simbolico italiano che sono i gradi di perfezionamento per impegnarsi particolarmente sui diritti civili, i diritti umani da cui dipende la Lega per i diritti dell’uomo e tutte cose del genere”.

‘La Confessione’ è prodotto da Loft Produzioni per Discovery Italia e sarà disponibile in live streaming e successivamente on demand sul nuovo servizio streaming discovery+ nonché su sito, app e smart tv di TvLoft. Nove è visibile al canale 9 del Digitale Terrestre, su Sky Canale 149 e Tivùsat Canale 9.

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Massoneria e politica, siamo alle solite: la vita pubblica va protetta dai gruppi privati

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Nei giorni scorsi avete letto su Il Fatto Quotidiano che a Benevento avanza nel centrosinistra la candidatura di Luigi Diego Perifano, già maestro venerabile della loggia massonica ‘Federico Torre’ di Benevento. La faccenda mi indigna. Ne parlo con la mia amica Sandra Bonsanti, che ha ingaggiato non da oggi una specie di corpo a corpo con ‘il segreto’, la quale mi dice che siamo alle solite. E ha ragione.

Sappiamo che esiste un grande attivismo massonico attorno a gruppi storici e di certo non si intende qui mettere in discussione la loro correttezza. Per carità. La faccenda è altra e non va banalizzata tantomeno mistificata. Perifano, stimato avvocato, non ci vede nulla di male nella sua candidatura e agita il ‘pregiudizio diffuso nei confronti della massoneria’; dice che nella vita non si occupa di operazioni occulte. Lo speriamo bene, anzi non ne dubitiamo, ma ci perdonerà se ci arrabbiamo molto quando i rappresentati istituzionali o politici si rifanno a pratiche di totale riservatezza che viaggiano nel buio: la dimensione pubblica deve correre alla luce del sole, il conflitto democratico si svolge a viso aperto.

Io voglio sapere chi sono e cosa vogliono tutti coloro che si propongono di dare rappresentanza alla società. Mi dice Sandra: sai, bisognerebbe ricordare più spesso, con più forza, quella storia di Mazzini, sì proprio lui che ha conosciuto la dimensione massonica come strumento di lotta all’autoritarismo borbonico. Nel 1860, scrivendo ‘I doveri dell’uomo’, dedicò un capitolo alla definizione di Giovane Italia, l’associazione segreta che lui stesso aveva creato, spiegandone la distanza da altri modelli: l’associazione deve essere pubblica. Vale la pena ascoltarlo dalle sue parole: “Le associazioni segrete, armi di guerra legittima dove non è Patria né libertà, sono illegali e possono essere sciolte dalla nazione quando la libertà è diritto riconosciuto, quando la Patria protegge lo sviluppo e l’inviolabilità del pensiero. Se l’associazione deve schiudere la via al progresso, essa deve essere sottomessa all’esame e al giudizio di tutti”.

La nostra vita pubblica e il bene comune vanno protetti dalla pervasività dei gruppi privati, tanto più di quelli che si nascondono. Rosy Bindi, nella scorsa legislatura presidente dell’Antimafia parlamentare, aveva promosso un rafforzamento della attuale, blandissima legge sulla massoneria (1982) e nel 2018 il presidente della commissione regionale antimafia della regione Sicilia, Claudio Fava, riuscì a far approvare una legge regionale che obbliga consiglieri e assessori a dichiarare formalmente la propria appartenenza a logge massoniche o similari.

Sarebbe già un passo in avanti se si estendesse questa pratica. Perché se le cronache raccontano con insistenza di logge deviate e dei loro intrecci criminali, o di gruppi che arrivano ad interferire con le attività pubbliche, un motivo di preoccupazione dobbiamo averlo. Anche più d’uno.

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Massoneria, Cecchi Paone: “Sono maestro di terzo grado e la mia famiglia ruppe con Gelli”. L’intervista su FQ MillenniuM in edicola

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C’è chi fatica a fare un solo coming out. Alessandro Cecchi Paone – 60 anni il 16 settembre, giornalista e personaggio televisivo strafamoso, professore universitario e tanto altro – ne ha affrontati due in un biennio. L’occasione più nota risale al 2004, quando ha reso pubblica, con orgoglio, la sua omosessualità. Nel 2005 ha esibito, altrettanto orgogliosamente, l’appartenenza al Grande Oriente d’Italia (Goi), la principale obbedienza della massoneria italiana. È il tema della lunga intervista che Cecchi Paone ha rilasciato a FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, nel nuovo numero in edicola da sabato 10 luglio con inchieste e approfondimenti sul tema della massoneria. Dopo sedici anni, c’è ancora oggi chi grida allo scandalo quando “scopre” che Cecchi Paone è massone, tanto da considerarlo complice di trame e complotti. A partire dal ddl Zan contro l’omotransfobia: il cattolico integralista Mario Adinolfi l’ha “accusato” di essere un massone; subito dopo su Facebook ha scritto: “L’operazione ddl Zan è un’operazione con finalità anticattolica ispirata dalla massoneria”. Ecco un estratto dell’intervista pubblicata sul mensile.

In ogni caso “massone” per lei non è mica un insulto…
Infatti me ne vanto. Ho anche assunto responsabilità crescenti. Sia chiaro: quando parlo di massoneria mi riferisco a quella riconosciuta; non c’entrano le pseudo-massonerie, quelle deviate e tutto il resto.

Responsabilità crescenti?
Sono maestro del terzo e ultimo grado della massoneria azzurra, quella generalista. Il massimo. Aggiungo che sono pure maestro architetto di un rito di perfezionamento, quello simbolico italiano.

A “La Confessione”, su Nove, ha detto: “Io sono nato massone”… Così precoce?
Be’, proprio alla nascita, no! Anche perché per aderire bisogna avere almeno 21 anni. Però i miei antenati ottocenteschi sono stati garibaldini e mazziniani. Io non ho potuto sottrarmi. D’altra parte la massoneria è da tempo un luogo di incontro della classe borghese democratica. Pochi sanno che il Goi l’ha fondato nel 1861 Giuseppe Garibaldi, il primo gran maestro.

Bastano le radici familiari per giustificare l’adesione?
No, ma con quelle radici ha avuto a che fare anche la mia militanza politica. Una volta la massoneria istituzionale si rifletteva nell’adesione a quattro partiti: repubblicano, il mio, liberale, radicale o socialista, nella componente non marxista. Oggi si riflette nei partiti che hanno raccolto quelle eredità. Ebbene, la mia famiglia è sempre stata liberale e repubblicana.

Però l’italiano medio conosce la massoneria a scuola e l’associa al Risorgimento. Dopo ne sente parlare soltanto quando scoppia uno scandalo, così la percepisce come un luogo in cui si trama…
Non è così, se non nel caso della P2. Dopo lo scandalo del 1981, la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, fondata nel 1717, ci ha tolto il riconoscimento. Una caduta terribile, un disastro….

Ultimamente l’avvocato Piero Amara ha parlato di una Loggia Ungheria, dedita alle nomine nella magistratura. Forse è molto trendy inventarsi una loggia per “vendere” un’aura di complottismo, mischiando fatti veri, verosimili e bufale?
Sì, è molto comodo. Se dovesse esistere, di certo non fa parte del Goi. Comunque un gruppo di complottardi non fa una loggia. Quelle riconosciute hanno nome, numero, organi di controllo, sede ufficiale, simbolo, eccetera.

La P2 di Gelli però era una loggia riconosciuta. O no?
Sì, è terribile constatarlo, perché Gelli era dichiaratamente fascista e legato ai servizi segreti sudamericani. Ha usato la massoneria e chissà chi ha usato lui.

Secondo lei sarebbe stato possibile fermarlo prima?
Difficile dirlo. Però ai tempi la mia famiglia, come tanti altri massoni, lasciò il Goi riconoscendo l’assoluta inammissibilità della P2. Io sono rientrato nel 2005, dopo che nel 1999 era diventato Gran Maestro un repubblicano, Gustavo Raffi: su indicazione delle massonerie regolari del mondo, aveva riportato l’ordine, espellendo i piduisti. Quando sono arrivato, qualcuno difendeva ancora Gelli. Ma Raffi, in carica fino al 2014, ha fatto pulizia. Certo, la P2 ha provocato gravi danni d’immagine. Mi spiace per i giovani.

Lei conferma che nella Massoneria c’è un’elaborazione di tipo politico, che poi cerca di imporre nelle istituzioni.
C’è un’elaborazione di carattere ideale, non politico. Si tratta di valori in nome dei diritti civili e umani, cui io mi mi dedico molto. I massoni non sostengono un singolo partito o un singolo governo.

Leggi l’intervista completa su FQ MillenniuM di luglio, in edicola o su tablet

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